Regia di Mario Martone vedi scheda film
Se mi chiedessero di descrivere i primi 10 minuti del film, riuscirei a trovare una sola parola per definirli: raggelanti. Il regista Mario Martone non usa mezzi termini e ci presenta immediatamente Giacomo Leopardi in tutti i suoi devastanti problemi fisici e caratteriali. Il rischio di farne una macchietta era molto alto a quel punto, ma il film prende improvvisamente vigore e l'immagine di Leopardi si innalza alla statura di un titano imprigionato nel corpo di un gracile infante. Il film è un continuo alternarsi di luce ed oscurità, quasi a sottolineare il profondo contrasto interiore del poeta: bisognoso dell'amore degli altri esseri umani e al tempo stesso impossibilitato ad ottenerlo a causa della sua diversità e della sua indole solitaria e malinconica, reietto e ribelle nei confronti di quella natura tanto disprezzata eppure così avidamente anelata, capace di regalargli "interminati spazi, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete", grazie al legame inscindibile che instauriamo con essa nel momento della creazione. La regia, coadiuvata da un'ottima fotografia, ci regala immagini di rara bellezza, ritraendo la rustica e selvaggia Recanati, l'opulenta Firenze e la contraddittoria Napoli, che alterna scorci straordinariamente affascinanti alla cruda disperazione dei bassifondi. Le immagini e la musica seguono assiduamente i pensieri dell'artista, chiuso in una solitudine che neanche l'amicizia sincera di Antonio Ranieri e l'affetto del fratello Carlo e della sorella Paolina riescono a scalfire per più di qualche momento di grande attaccamento emotivo. Le idee, le sensazioni, le parole di Leopardi scorrono come un fiume in piena, incapaci di permeare l'indifferenza e l'ottusa ostinazione di chi non lo ha capito e di chi non lo capisce tutt'ora; di fatto, è impossibile riuscire a fare proprio il pensiero di Leopardi per più di qualche minuto, lo si può solo (purtroppo) stimare, un sentimento di cui un pensatore di tale portata non ha bisogno. E con stanca rassegnazione, siamo costretti ad ammettere la superiorità di una persona con una sensibilità fuori dal comune, una personalità unica destinata ad attraversare gli oceani del tempo, in attesa di un suo pari capace di raccoglierne l'eredità poetica e spirituale.
Il cast del film è ben scelto e recita generalmente bene, ma è l'interpretazione di Elio Germano ad elevarlo ulteriormente: l'attore romano si avvicina più volte alla caricatura, scansandola costantemente con eleganza, e adotta uno stile efficaciemente sopra le righe (mi ha ricordato parecchio il marchio inconfondibile del Gary Oldman dei tempi migliori, che faceva dell'intensità e della teatralità il suo punto forte), risultando il vero dominatore della pellicola. Particolarmente significativa è stata l'ultima scena del lungometraggio: sul terrazzo di una villa in campagna alle pendici del Vesuvio (quella che poi sarà ribattezzata Villa delle Ginestre), Giacomo Leopardi, ormai a un passo dalla morte a causa dell'inesorabile decadimento del proprio fisico, osserva in silenzio il cielo notturno, trovando le parole giuste per comporre la famosa lirica "la Ginestra", e, in questa pace divina, il suo sguardo si perde nell'immenso sudario di stelle che lo sovrasta, presagio dell'imminente liberazione dal peso della vita.
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