Regia di Mario Martone vedi scheda film
Le avvolgenti, ipnotiche, stranianti note di Apparat, ripetute ossessivamente (Goodbye, anche nella versione feat. Soap&Skin, d'una fulgida bellezza) come fossero un tormentoso mantra organicamente connesso - per contrasto (a)storico/(a)temporale, per distanza astrale di contesti, per affinità metatestuali - all'infelicità leopardiana, sembrano costituire/costruire un ideale ponte (sospeso nel grembo filmico, principio di morte) tra il passato e l'oggi.
Martone, difatti, concedendo(si) ben poco alla religiosità istituzionale della desertica "rispettosa" ricostruzione filologica e ai rigidi principi e canoni della (im)portante traduzione, trova nella figura enorme del grande poeta di Recanati (per definizione e per mera logica irraccontabile, incomprensibile, infilmabile) i modernissimi versi di un dialogo universale, di un prezioso epistolario fitto di riflessioni mai banali sulla (umana) condizione contemporanea. Così, ogni confronto/scontro tra le ragioni di Leopardi (eruttate come lava rovente da un intelletto superiore su un corpo ineluttabilmente destinato a sofferenze psicofisiche crescenti) e le dogmatiche moralistiche considerazioni dei vari antagonisti (l'incrollabile fede della madre, l'invalicabile muro reazionario del padre, l'opportunismo insito di politici e curia, i letterati chiusi nella loro esclusività e piegati a soddisfare le "masse felici", la viltà di "nobili e plebei", la malvagità della Natura matrigna), genera un (im)mediato illuminante sguardo impietoso con la realtà quotidiana.
Interpretazione ardita, forse; senz'altro intuizione ammirevole e profonda del regista di Noi credevamo, tale da rendere trascurabili alcuni intermezzi deboli (come il provincialismo di certe folcloristiche sequenze napoletante, l'apparente superfluità di altre, la staticità delle insistite rappresentazioni da palcoscenico che a tratti rendono la visione appesantita) e di lasciare che comunque l'infinitamente prodigioso Verbo leopardiano s'inietti potentissimo (quasi tutte le fusioni tra immagini e versi decantati da Germano toccano le corde del sublime) nelle anemiche menti e negli stepposi tumefatti cuori dello spettatore/lettore (tanto quello occasionale quanto quello "erudito").
Deviando dalle noiose rotte di normali anonime esposizioni biografiche che hanno spesso la durezza dell'inutilità (tanto più se il soggetto è ampiamente noto nonché incendiario come nel caso in questione), Martone non espone, sovraespone (capovolgendo la fisica degli elementi, le finalità delle cose e la gravità di corpi e pensieri). Una figura così accentrante diviene pertanto centro cosmico attorno al quale orbitano (finendo col collidervi, creando un magma di linguaggi) particelle in costante nevrotica agitazione/eccitazione: l'insieme scontato delle tematiche, l'accostamento musiche sacre-classiche/elettroniche, le inquadrature immersive nella/e natura/e, la meccanica enfatica della teatralità, l'espressività drammatica di luci, fotografia, scenari. E la (forza unica della) voce di Giacomo Leopardi, riversata con sensibilità "vera" da un impressionante Elio Germano.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta