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Il giovane favoloso

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Il giovane favoloso

di scapigliato
9 stelle

C’è un periodo della vita in cui tutti ci sentiamo un po’ dei Giacomo Leopardi. Inadeguati, rifiutati, “storpi” dentro e magari anche fuori: troppo magri, troppo grassi, troppo brutti, poco di questo e poco di quello. L’interesse per Leopardi si rinnova così ad ogni dolore, ad ogni solitudine, ad ogni rifiuto a cui segue regolarmente un intenso slancio emotivo verso l’infinito, verso l’eternità, verso la lotta ribelle allo stato delle cose. Autore tra i più importanti del canone letterario italiano, Leopardi va nuovamente riscoperto alla luce di un nuovo appeal più moderno e più in linea con i nostri tempi, magari privilegiando un approccio fuori dal contesto scolastico che ne vizia l’essenza. Uno di questi tentativi è il film di Mario Martone dedicato al poeta di Recanati.

Bohemio anzitempo e suo malgrado, il conte Leopardi attraversò con ardire l’Italia che stava per unificarsi, incrociandosi con i movimenti libertari che ne volevano un chiaro supporto ideologico, ma pur sempre tenendosene alla larga, guardandoli con sospetto, magari abbracciandoli con entusiasmo prima per poi allontanarsene senza mezzi termini. L’inquietudine leopardiana trova il suo principale referente nella natura primitiva, oggi madre benigna e domani strega malefica, e instaura con essa una dialettica filosofica che trascende la materia e guarda più allo spirito che al corpo. Nonostante l’afflato filosofico il Leopardi di Martone è tutto corpo. Corpo e materia corporale, dalle escrescenze di un fisico malato alle fisiologie più irruenti. Corpo, materia corporale e anche materia naturale. Leopardi è l’ermo colle che sempre gli fu caro. Leopardi è la campagna, il prato, la terra ribaltata che pesta con il suo bastone. È il cane sui gradini, è il sole, è la pioggia ed è la terra che dà frutto. Il poeta si avvicina timido ai segni della primitività, per paura di un ennesimo rifiuto che, ahilui, regolarmente arriva.

Questo corpo, questa corporalità, questa materia referente della natura è tutto appannaggio di Elio Germano, notevolissimo Leopardi cinematografico che utilizza al meglio la propria riconosciuta fisicità per aderire simbolicamente al grande poeta evitando la mimesi sterile dello studio filologico. La sua recitazione espressionista, tutta smorfie, deambulazioni, storture fisiche e urla improvvise, evita anche il macchiettismo e ci regala una performance di grande prestigio, più di scuola americana che italiana. Con lui, gli altri attori di contorno completano il quadro di dissonanze restando fermi e impassibili pigottini cotonati, imbeccati nei propri vestiti signorili, mentre il giovane favoloso si prodiga in slanci di ribellione formale. Gli fa giusto eco l’Antonio Ranieri interpretato da Michele Riondino, scapestrato artista napoletano che si concede in un nudo frontale e conferma così la non-appartenenza al mondo gentilesco e ruffiano di lor signori.

Martone adotta coscientemente un registro visionario che più e più volte abbandona il sentiero della linearità narrativa per lasciare affiorare la poesia e il canto emotivo evocato dalle opere e dalla vita del Leopardi attraverso le sensazioni suscitate da inquadrature, pose e intere scene particolarmente azzeccate, non narrative, liriche e oniriche. Inquadrature la cui durata relativa è sovrabbondante e riesce così nell’intento di regalare allo spettatore la rarità dello sguardo contemplativo.

Purtroppo, va anche detto che la messa in scena in più punti, soprattutto nel segmento marchigiano, sa di finto. Molte sequenze, seppur ricercate stilisticamente come il tentativo di fuga di Leopardi nella notte di tempesta, sembrano svelare il trucco posticcio. Ci immaginiamo di vedere il campo proibito, lo spazio deputato ai macchinari, alla regia e alle quinte. L’estrema aderenza alla realtà storica, vezzo e difetto di molto cinema di oggi, non aiuta l’empatia, bensì attiva l’anticorpo razionalista per cui la finzione è svelata. Se non si ricorre alla distorsione – non solo musicale come succede qui con la colonna sonora di Sasha Ring – e alla deformazione visiva, profilmica o filmica, la messa in scena ci risulterà sempre falsa e ci farà perdere il piacere di un’immersione totale nell’universo poetico del regista.

La sezione napoletana, la più riuscita, è l’atto finale di un calvario tanto fisico quanto intellettuale. Gli ambienti si fanno simbolici, i fumi infernali investono stamberghe, postriboli e viottoli anonimi. La stortura fisica del poeta fa eco all’inadeguatezza del suo ruolo nella società partenopea che prima lo accoglie festosa e poi lo scaccia come un appestato. Notevole anche la sezione fiorentina, la più bohema, la più scapestrata e scamiciata dove intravediamo con chiarezza anche la tensione omoerotica che pervade il corpo del giovane Leopardi mentre ammira la nudità dell’amico Ranieri. Se non è omosessualità latente è omosessualità o meglio omoerotismo indotto. Indotto da una sfortuna fisica che ha privato il poeta dei piaceri carnali individuali, proiettando sull’amico interpretato da Riondino “il corpo” che gli è sempre mancato – gli fa eco lo sguardo morboso con cui Martone e quindi il Leopardi guardano il giovinetto napoletano che porta un pizzico di felicità al povero poeta.

Da non dimenticare la fase finale a Torre del Greco. La monumentalità del Vesuvio ispira l’ultimo Leopardi prima della morte e la composizione de La Ginestra, resa in voce off su scene slegate dalla narrazione come ha egregiamente fatto il regista in quasi tutti i momenti più riusciti del film, è l’apice del suo rapporto con la natura e la cultura, binomio in opposizione forte del proprio contrasto come della propria irrinunciabile dipendenza. L’esplosione del monolite ricorda un’altra gobba, quella leopardiana, che sprigiona tutta la sua fame di felicità mascherandola con la disperazione. Elio Germano, sublime anche in queste ultime battute, restituisce al poeta tutta la fisicità che la sua lirica ha da sempre veicolato in bassocontinuo.

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