Regia di David Ayer vedi scheda film
Della serie “chi fa da sè, fa per tre” David Ayer decide di produrre (con la collaborazione di Brad Pitt), scrivere e dirigere questo Fury, dramma bellico ambientato durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, quella che non smette di affascinare Hollywood grazie anche/soprattutto alla ancora netta distinzione, almeno nell'immaginatorio collettivo, tra buoni (quasi sempre gli USA) e cattivi (senza quasi i nazisti) e riesce probabilmente a creare un prodotto destinato a diventa un piccolo classico tra i cultori dei war-movies.
Ayer decide di seguire il solco tracciato da Spielberg in Salvate il soldato Ryan ma anche di un certo cinema bellico americano più arrabiato, come ad esempio lo splendido Il Grande Uno Rosso di Samuel Fuller a cui il Fury di Ayer deve veramente tantissimo (forse perfino troppo) o il cinema di Sam Peckinpah, omaggiato dal regista nella lunga battaglia finale, e realizza un film ancora più brutale, sporco e violento, sgradevole e cattivo forse anche grazie dell'esperienza diretta in materia dello stesso regista, ex-marine USA in Medio Oriente.
Ayer dimostra notevoli capacità nel costruire le scene d'azione, ben congegnate e articolate (vedasi ad esempio lo scontro in campo aperto tra il gruppo di carri guidato da Wardaddy e il Tigre tedesco), ad una cura certosina per I dettagli e ad una ricostruzione storica accurata, dal'utilizzo dei carri ai materiali d'epoca (peccato soltanto per quei “traccianti” effettivamente un pò troppo alla Guerre Stellari!).
Una cura persino eccessiva e totalmente radicale che purtroppo viene però a mancare nella costruzione della storia e, soprattutto, nella caratterizzazione dei protagonisti, costruito da personaggi stravisti o addirittura appena abbozzati.
Al regista infatti interessa soprattutto concentrarsi sull'azione estrema e/o ad una sua rappresentazione realistica e d'effetto ma, nel farlo, infarcisce la storia di una retorica pedante e di demagogia “Made in USA” scandida da dialoghi banali e da vicende e situazioni anche scontate e dove di nuovo offre veramente poco: che la guerra è un infermo non solo è stato già detto prima in innumerevoli pellicole ma spesso anche decisamente meglio.
D'altronde Ayer non possiede l'epicità di uno Spielberg o lo sguardo di un Malick ma nemmeno il disincantato patriottismo di un Eastwood.
Ma in quanto sceneggiatore è inoltre colpevole di non aggiungere niente di nuovo alla psicologia spicciola dei suoi protagonisti, eccessivamente stereotipati e tagliati con l'accetta:
il leader del gruppo, Wardaddy (Brad Pitt) iconico rappresentante dell'autorità USA (e quindi della leadership americana), indurito dalla guerra e spietato con il nemico ma leale e sensibile, vera figura paterna per i propri sottoposti che lo adorano e che sono disposti anche a morire per lui (e quindi anche per gli ideali americani che nel bene e nel male rappresenta),
il “predicatore” (Shia LaBeouf), soprannominato Bibbia, che santifica attraverso la propria Fede le motivazioni alla lotta del popolo americano in quanto nel giusto e contro un nemico crudelo e immorale (riferito più volte quasi esclusivamente alle SS, e quindi al nazismo in sè, che non genericamente al popolo tedesco, vittime loro stessi come pretende oggigiorno il “politicamente corretto”);
il soldato rozzo e ignorante (Jon Bernthal) e quindi anche prepotente, esponente della classe povera e operaia ma disposto a sacrificarsi per il bene dei propri compagni e quindi indirettamente (e/o inconsciamente?) anche per il proprio paese (e che, molto opportunamente, dimostra un animo sensibile e buono giusto in tempo perchè il pubblico empatizzi con lui abbastanza da esserne emotivamente coinvolto al momento della morte), il “Gordo” (Michael Pena) ovvero il messicano in sostizione del più inflazionato soldato di colore come rappresentante del variopinto mondo multietnico a stelle e strisce (in pratica una specie di "quota-rosa" riservata alle minoranze etniche) e infine l'ultimo arrivato, il giovane novellino (Logan Lerman) inconsapevole della realtà e degli orrori della guerra e che verrà svezzato dai commilitoni, anche rudemente, fino a dimostrare alla fine di avere in quanto americano anche lui la stoffa dell'eroe pronto a imolarsi per la giusta causa.
Piuttosto buona comunque la prova degli attori, specie un Brad Pitt volutamente dimesso e sottotono, vagamente fatalista, e di un maturo e spaventato Logan Lerman, in un ruolo che peraltro sembra stato scritto apposta per lui.
Ma il vero protagonista/simbolo del film non è un personaggio in carne e ossa ma è un carro armato, soprannominato Fury dal suo equipaggio, e vero centro narrativo ma anche emotivo non solo del film ma degli stessi protagonisti.
Tutti ciò che succede nel film e direttamente o meno collegato a questa scatola di metallo, un micro-cosmo tutto al maschile che rappresenta metaforicamente casa e, contemporaneament,e patria/famiglia/rifugio (anche ventre materno?) da proteggere a qualsiasi costo, anche con il sacrificio estremo e ha indubbiamente un suo fascino la claustrofobia che si avverte nel cingolato e tra I menbri del suo equipaggio che in osmosi con il carro al suo interno vivono, mangiano, dormono (e scopano!), ridono e piangono.
E, soprattutto, muoiono.
VOTO: 6,5
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