Regia di David Ayer vedi scheda film
1945: ultimi scampoli della Seconda guerra mondiale. Mentre gli alleati avanzano, le retrovie sono costrette al lavoro sporco e a piegare le ultime resistenze tedesche, spesso e paradossalmente in inferiorità numerica. È il caso del sergente Don Collier: capigliatura e modi eccentrici da inglorioso bastardo, paura e ribrezzo ben celati (magari dietro un disperato pianto, lontano dagli occhi delle truppe) e spavalderia di facciata. Con lui, e il suo carro armato M4 Sherman, ci sono quattro uomini, isolati e costretti a una missione suicida. Costretti anche a fare da balia a un giovane soldato entrato nell’esercito come dattilografo, sottratto a ogni intento non violento e brutalmente addestrato alla carneficina. Senza aggiungere nulla al cinema di guerra e ai discorsi in merito, il film di David Ayer sorprende per la radicalità dell’assunto e la frontalità della messa in scena: Fury fa tabula rasa dell’eroismo classico - o ne sposa una formula retorica, di mero posizionamento nel genere - e restituisce la disperazione, la follia e la violenza del conflitto. Soprattutto ne illustra i risultati umani e l’educazione alla morte del più giovane e inesperto con una sequenza di grande durezza: quella in cui l’eroe/divo/sergente Pitt lo costringe a uccidere il nemico in una sorta di pedagogia allucinata del codice militare. Poi cala la notte, ma prima del kammerspiel dell’orrore, Ayer si permette una parentesi con licenza sentimentale tra le rovine. Degli uomini e delle cose.
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