Regia di Lorenzo Bianchini vedi scheda film
Uno storico friulano si imbatte per caso in una vecchia fotografia presso un mercatino locale, in grado di confutargli alcuni incredibili sospetti riguardo ad una ricerca in cui lo stidioso stava cercando di documentare alcuni tetri fatti di costume legati a vecchie usanze e riti esoterici tra la popolazione locale attorno al 1500.
Prima si sparire, l'uomo riesce a contattare un intraprendente gionalista di una pagina locale, che si mette subito ad indagare sia sulle storie che il professore è riuscito in qualche modo e seppur genericamente a raccontare, sia sulle misteriose dinamiche della scomparsa dell'uomo.
La verità che verrà a galla non avrà nulla di incoraggiante, e sottoporrà il giornalista ad una serie di vicissitudini, incidenti, incontri e scoperte rocambolesce ed incredibili che lo indurranno a fare la fine di chi lo ha preceduto nelle medesime ricerche.
Dopo l'esordio quasi dilettantesco ma comunque di un certo livello rappresentato da "Radice quadrata di tre" e prima di "Film Sporco" (opera praticamente introvabile quest'ultima), torna il regista di Udine con un horror esoterico poverissimo di mezzi ma a suo modo emozionante, che conserva la medesima strettissima connotazione logistico geografica del precedente (e dei successivi film di Bianchini), esaltando l'aspetto paesaggistico locale, così come il dialetto del posto e gli interpreti che intervengono ad impersonificare i personaggi coinvolti, molti dei quali, se non quasi tutti - e spesso ahimé la circostanza si nota - , attori solo per l'occasione.
Un cinema poverissimo, ma orgoglioso per i contenuti tutt'altro che semplici da sviscerare, mostrare e raccontare, quello di Bianchini: il regista si trova costretto a usufruire di soluzioni registiche, musiche ad effetto (molto valide, che ricordano un pò quelle argentiane dei Goblin nei '70) necessarie ed indispensabili a supplire una impossibilità di rappresentare ciò che altrimenti avrebbe richiesto costosi e improponibili effetti speciali.
Ecco dunque che la Bestia viene fatta vedere per singoli particolari, nell'incedere furioso, attraverso gli occhi atterriti delle sue vittime, attraverso lo scalpicchio furioso dei suoi tacchi caprini.
Una povertà di mezzi che si riscontra anche nella semplicità disarmante di una fotografia sciatta che mal si presta al genere horror, ma della quale il regista fa fieramente virtù per confezionare un horror certamente fatto in casa, ma di grande effetto emozionale per le atmosfere sinistre e lugubri che sa crerarsi anche grazie ad una valida ambientazione tra ruderi di paesi semi abbandonati, e che non può non ricordare certi notevoli esordi giovanili alla Avati, pure lui legato, nei '70, ad una ossessione horror con radici locali (padane in quel caso), e una tradizione di autori ed artigiani italiani che hanno saputo meglio di altri autori ben più celebrati, valicare i confini territoriali nazionali per proporsi al mercato internazionale.
Tra gli interpreti, pressoché tutti attori occasionali e come tali spesso un pò impacciati o innaturali, anche mentre parlano il loro dialetto locale, riconosciamo all'affezionato Massimiliano Pividore (protagonista pure di Radice quadrata di 3 e Film sporco), la capacità di rendersi piuttosto credibile e di sapersi far apprezzare nel ruolo centrale del giornalista alla ricerca di una verità scomoda, impossibile da accettare, impiastrata di malvagità e male assoluto.
Diamogli dei soldi dunque al Bianchini! Magari non troppi, per evitare che le disponibilità affossino, come spesso avviene, quel talento che la necessità quasi sempre aguzza ed affina, ma necessari per farlo esprimere al suo meglio.
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