Regia di Morten Tyldum vedi scheda film
Non si esce vivi dalla materia manierata dei biopic.
159 milioni di milioni di possibilità soltanto per capire le impostazioni dell'infernale indecifrabile aggeggio nazista chiamato "Enigma" ed una sola per concepire, impostare e realizzare il classico film "tratto da una storia vera". Ovverosia quella che prevede familiari meccanismi (oliati da decenni e decenni di pratica), funzioni basilari, calcoli regolarmente e semplicemente complessi, formulette operative sempre valide, algoritmi di sicura presa ed efficacia: la missione - nient'affatto impossibile - è l'amplesso edu(l)c(or)ato con la cerimoniosa giostra hollywoodiana e dintorni. Il gioco dell'imitazione.
Difatti, non occorre alcuna decrittazione - né alt(r)i livelli di "fatica" critica - per leggere l'opera: la (gelida) rappresentazione, ricercata come un capo d'alta moda per venire incontro ad ovvie esigenze modaiole, è matematica applicata alla portata di tutti, infarcita di nozioni buone allo scopo e a poco altro.
Una visione convenzionale - a cui non manca proprio nulla del babaglio necessario (flashback, voce fuori campo, alternanze passato/presente, caratterizzazioni standard, crescendo della psicologia del protagonista e ruolo dei comprimari, utilizzo delle musiche, inquadrature implacabilmente aderenti ai canoni) - che finisce, ben presto, con il disinnescare - congelando il tutto in una rassicurante elegante confezione vuota - la carica esplosiva, finanche "eversiva", della storia straordinaria di uomo - per una volta davvero - straordinario.
E non bastano certo le parole di Joan Clarke/Keira Knightley rivolte ad Alan Turing/Benedict Cumberbatch - consumato ed umiliato dalle amorevoli cure delle istituzioni (la castrazione chimica come alternativa alla prigione) -, con cui lo ringrazia di aver salvato innumerevoli vite proprio perché "non normale", per rendere la figura del genio e uomo. Così come non sono sufficienti (sconfinando anche nelle zone dell'artificio) le continue manovre sulla diversità di Turing, che spesso hanno la " forza" dell'aneddoto, ed unicamente volte a scatenare l'automatico sdegno; ma così come la risposta emotiva si aziona rapidamente, altrettanto di fretta svanisce tra le maglie di una struttura filmica gelida, ingessata.
Le logiche considerazioni sulla guerra ("combattuta" ed addirittura - parrebbe - "orchestrata" dietro scrivanie) e gli elementi spy da grande cospirazione (cosa in cui gli inglesi sono maestri, anche se la "mano" è dell'americano Graham Moore), derivanti da una vicenda incredibile tenuta segreta dalle autorità per cinquant'anni, non scalfiscono la dura corazza da soldatino pronto per la guerra degli Oscar e degli altri trofei per i quali la produzione è inevitabilmente in corsa.
Restano pertanto l'eccezionalità della storia e dell'uomo (come lo sarebbe semplicemente avendone letto la biografia), di cinematograficamente rilevante non v'è granché se non - come copione comanda e pretende, d'altronde - le interpretazioni.
A partire da quella impeccabile di un Mark Strong nato per i ruoli ambigui, per proseguire con il viscido Charles Dance (vedi sopra), il (sempre) sottovalutato Matthew Goode impegnato in una performance mirabile, ed infine una Keira Knightley incisiva e convincente.
Su tutto e tutti, inevitabilmente, quel mostro di bravura di Benedict Cumberbatch: la perfezione racchiusa in superbi occhi felini che squarciano stati e strati di emotività raggiungendo un'intensità impressionante.
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