Regia di Morten Tyldum vedi scheda film
Sherlock piace a tutti. E Benedict Cumberbatch pure. Ciò non toglie che The Imitation Game non funzioni proprio. Veicolo da Oscar per Harvey Weinstein, che ritorna in Inghilterra per ripetere il colpaccio di Il discorso del re, il film, pur essendo meno detestabile di un romanzo di formazione su un re che apprende a non balbettare per dichiarare la guerra, sembra la parodia del luogo comune di ciò che taluni produttori americani sospettano debba essere un “film d’autore”. E non basta certo infilare nel cast, oltre al protagonista, anche Allen Leech per fare Downton Abbey. Come per “la bella fotografia”, anche le “grandi interpretazioni” sono materia imperscrutabile. E se Cumberbatch ci va giù di puro mestiere, il doppiaggio pialla ulteriormente qualsiasi sospetto di vitalità. Fare di Alan Turing un protomartire della causa gay potrebbe anche essere giusto, se alla base dell’operazione ci fosse un film e non una mera manovra di marketing. Morten Tyldum, egregio carneade sans style, dirige il tutto come se non avesse mai visto, nemmeno per sbaglio, un film di James Ivory. A conti fatti, però, sono proprio elementi come forma anonima ma costosa, attori “bravissimi” ma manierati e “scenografie bellissime” a racchiudere l’ideologia da Oscar di Weinstein. Senza contare la ricostruzione storica cartolinesca. Insomma, se tutto va come da confezione, piovono Oscar.
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