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Pasti

Regia di Edgar Reitz vedi scheda film

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La recensione su Pasti

di sasso67
9 stelle

Il caso di Edgar Reitz è abbastanza curioso anche per i particolari standard del mondo del cinema. Cineasta tra i più autorevoli nel gruppo dei firmatari del Manifesto di Oberhausen (1962) e quindi del Nuovo Cinema Tedesco, addirittura uno dei primi di quella generazione a possedere gli strumenti tecnici per girare un film (collaborò con Alexander Kluge alla regia di La ragazza senza storia, pur figurando soltanto come direttore della fotografia), premiato a Venezia per la migliore opera prima proprio con Mahlzeiten, alla fine degli anni Settanta era un regista ormai pressoché ignorato dal pubblico e dalla critica, all'indomani del fiasco di Il sarto di Ulm (1979). Dopo avere meditato di abbandonare il mondo del cinema, Reitz si gettò nella progettazione e nella realizzazione di quello che resta il suo capolavoro, il primo Heimat (1984), visto ed apprezzato in tutto il mondo e seguito, seppure con minori clamore e popolarità, da Heimat 2 (1992) e da Heimat 3 (2004). La cosa che più stupisce riguardo alla carriera di Reitz è che lo strepitoso e meritato successo di Heimat non sia servito ad illuminare retrospettivamente la carriera del regista tedesco, le cui prime opere continuano a rimanere sconosciute anche a coloro che hanno ammirato l'affresco composto dai pannelli di Heimat.

È anche il destino di Mahlzeiten, che letteralmente significa Pasti, ma in italiano è stato tradotto anche come L'insaziabile. Ed in effetti quest'ultimo titolo, pur lontano dall'originale tedesco,  non è - caso raro - fuorviante, tanto è vero che il primo lungometraggio di Reitz, premiato al Festival di Venezia del 1967 come migliore opera prima, è stato per qualche aspetto avvicinato a L'ape regina di Marco Ferreri. La protagonista femminile, infatti, all'apparenza sembra quella che, con espressione icastica, Elio e le Storie tese avevano definito una «cagafigli» (Essere donna oggi), tanto da abbandonare le proprie ambizioni artistiche nel campo della fotografia per dedicarsi alla tavola domestica e al talamo coniugale. Nella realtà, la donna, che con il matrimonio è diventata ben consapevole del proprio ruolo sociale, annienta pian piano il proprio compagno, che si annulla in lei rinunciando anch'egli al proprio corso di studi in medicina (cha aveva scelto per avere sofferto numerose malattie durante l'infanzia), assecondandola nell'infatuazione per la religione mormone ed infine convincendosi che l'unica soluzione è la fuga dalla vita. Probabilmente Elisabeth aveva già individuato la soluzione migliore per sé stessa in quella che enuncia nel finale del film, quando informa di essere andata a vivere negli Stati Uniti d'America insieme ai cinque figli (avuti da Rolf) ed al nuovo giovane marito americano e mormone, in una terra libera, in una casa immersa nella natura. È solo con la morte di Rolf - autore di un suicidio inquietante per la pervicacia con cui è perseguito l'obiettivo, nonostante l'evidente disorganizzazione - che la giovane può realizzare il proprio scopo di raggiungimento della felicità, scopo che è a chiare lettere indicato proprio sulla Costituzione degli USA.

Reitz è un regista colto, imbevuto di cinema e di letteratura (come per molti autori del NCT, si pensa a Heinrich Böll), attento alle avanguardie americane ed europee, ma anche Antonioni non è estraneo alle preferenze del regista tedesco. Se tuttavia si può individuare un nume tutelare per Mahlzeiten, bisognerà cercarlo nella Nouvelle Vague francese e in particolare, secondo me, in Truffaut, cui Georg Hauke (l'attore che interpreta Rolf) somiglia, anche se vagamente. L'ottima Heidi Stroh, invece, ricorda abbastanza da vicino la Jeanne Moreau, principale musa dei giovani turchi del cinema francese.

È stato scritto - come per altri autori dalla storia artistica analoga - che non si possono interpretare tutte le opere precedenti di Reitz in funzione di Heimat, però nella fotografia, nella libertà espressiva e nella sapienza con cui descrive, in particolare, le figure femminili, c'è già tutto il Reitz del suo capolavoro.

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