Regia di Alessandro Melazzini vedi scheda film
Come i suoi suadenti e verticali paesaggi, intrisi di Storia e di evocazione e inquadrati con sentita partecipazione, Stelvio di Alessandro Melazzini genera un vago straniamento. Lo fa perché è uno strano ibrido, un oggetto difficilmente collocabile. Da un lato è un film di territorio ampiamente consuetudinario, ha una sua vena televisivo-divulgativa, una committenza conquistata faticosamente - più territoriale e turistica che ministeriale - e si intrattiene con albergatori, bancari, costruttori di sci e ciclisti; inquadra scalatori del passo, pellegrini, salumi, polente e pizzoccheri. Dall’altro è un ritratto di maggiore respiro, rifiuta il repertorio (anche per raccontare la Prima guerra mondale) e la didascalia: racconta di uomini la cui storia incrocia quelle cime, che siano divertenti artisti pacifisti austriaci, inventori di attrezzature salvavita per la montagna o teorici della natura profondamente meditatoria dell’ascesa e «dell’eterogenesi degli scopi». Facendolo a volte commuove, in altre occasioni sfocia nella retorica. E ci si trova un po’ spaesati. Non che sia un male, anzi, ma l’idea centrale - quella dell’ascesa e della pace spirituale, dell’invettiva contro le piccolezze dell’uomo - assume spesso connotati meccanici, quasi da film a tesi. Perché non necessariamente «attraverso l’ascesa verticale la grandiosità della montagna ci restituisce il posto che l’uomo ha nell’equilibrio generale».
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