Regia di Patrick Hughes vedi scheda film
Il pensionamento è un amaro boccone da mandar giù.
Ammettere di aver fatto il proprio glorioso tempo, di appartenere al passato lasciando che le nuove generazioni vivano il loro brillante(?) futuro, è impresa ardua.
Molto più facile inabissarsi nelle paludi vietnamite, scalare rocce a strapiombo, fissare gli occhi della tigre mentre si è stretti nell’angolo di un ring ad incassare destri a ripetizione, dare la caccia ad una setta di pericolosi maniaci metropolitani piuttosto che starsene buoni, in disparte, spettatori -per una volta- del mondo e del suo perenne divenire.
È arrivato il fatidico momento di appendere i guantoni al chiodo, mettere la sicura al mitra e lasciare spazio ai giovani.
Che si facciano (anch’essi) le ossa.
Come hanno fatto coloro che son venuti prima.
Magari avendo la fortuna di trovare il giusto trampolino di lancio.
Dietro il progetto Expendables o Mercenari, che dir si voglia, troviamo ancora lui, l’inossidabile Sylvester Stallone, immensa icona del cinema popolare hollywoodiano e mondiale, forse la vera (e ancora vivente) incarnazione del sogno americano, colui che più di tutti -della sua generazione e non- ha saputo tenersi al passo coi tempi, provando -con risultati alterni ma sempre anche minimamente degni di nota- a rinnovarsi, reinventarsi pur rimanendo costantemente fedele al suo personaggio: attore prettamente, principalmente fisico, dotato della rara qualità di possedere (nella sua categoria) un’anima e un cuore genuini, tali da creare nel corso di più generazioni una vasta schiera di fedelissimi estimatori (uomini e donne) i quali, nonostante gli anni accumulati, non si scoprono irrimediabilmente inorriditi innanzi ad un corpo ‘inadeguato’, non più scolpito come una volta, che mostra gli inesorabili segni del tempo, così come i lineamenti del volto, alterati certo ma -grazie a Dio- ancora tanto familiari. Estimatori che accolgono i suoi lavori senza storcere il naso, con la voglia di provare ad emozionarsi come accadeva quando si era bambini, e pure divertirsi, vista la gradevole vena autoironica che ha sempre attraversato buona parte delle opere dello Stallone italiano e che ora, con l’età della saggezza, si fa comprensibilmente e intelligentemente più marcata, fino a diventare il tema principe delle sequenze dialogate e dei momenti di stasi del suo ‘nuovo cinema’, tra una sparatoria, una sfilza di esplosioni, un corpo a corpo ed una corsa a perdifiato sul tetto di un edificio che sta letteralmente crollando sotto i piedi…
Altro che mettersi comodo in poltrona come un comune nonnetto, munito di ciabatte ai piedi e il telecomando al posto del ferro a fargli da nuovo, inseparabile amico.
Sly riscrive con successo il suo presente e il suo futuro.
Continua, infaticabile, la pluridecennale avventura di moderno umanissimo eroe, ma non indossando vesti assolutamente démodé -(brutto) segno di un’ottusa nostalgia cristallizzata nel tempo che fu e che mai più tornerà-, piuttosto guardandosi intorno, registrando i mutamenti della nostra epoca.
Adeguandosi. Perché solo così sa di riservarsi ancora un posto al sole.
Sposa con umiltà e consapevolezza del proprio potere iconico il passato e il presente, salvando ciò che di buono è stato/ha fatto nei suoi anni d’oro e innestandolo nell’oggi, nella nuova idea di cinema spettacolare per le masse che vuole contribuire a delineare, capace di fondere l’azione muscolare nuda e cruda con la tecnica delle discipline sportive estreme, passando per la tecnologia computerizzata più avanzata.
Con l’augurio di rinverdire il genere d’azione, strapparlo alla robotizzazione sterile dei registi fracassoni, riconsegnarlo a personaggi in carne ed ossa che non fungano semplicemente da sfondo o da pretesto per lo sfoggio autocompiaciuto di pirotecnici ridondanti effetti speciali.
E rintracciare facce nuove, che lo spettatore possa tornare a riconoscere (e nelle quali riconoscersi).
Perché Sly lo sa bene: oggi, affinché un’operazione (paramilitare) top secret vada in porto, è necessario un navigato manipolo di cuori impavidi (e forse pure un po’ scoppiati) supportati da giovanissimi geni dell’informatica.
E la missione può considerarsi possibile.
Così raduna per la terza volta (ciò che rimane del)la vecchia ciurma di soldati assoldati dal governo per ripulire faccende sporche e maleodoranti.
Accoglie alla sua corte nuove leve, ognuna dotata di un particolare talento più o meno ‘vistoso’.
Invita alla sua tavola imbandita il demolition man Wesley Snipes, regalandogli un ritorno al cinema in grande spolvero dopo l’affossante esperienza delle patrie galere.
Riserva un posto d’onore ad un’altra stella del relativamente recente firmamento a stelle e strisce, l’intramontabile archeologo avventuriero-impiegato del governo-presidente per una volta del suo air force one, l’ancora affascinante Harrison Ford, che dimostra orgoglioso l’età che avanza, mostrandosi altresì soddisfatto nel prendere parte al gruppo di questi simpatici vecchietti arzilli per nulla intenzionati a rompere le righe, deporre l’armatura pesante e riservasi il ruolo di scalda panchine.
Richiama (impietosito?) dalle fatiche del mulino campagnolo un ritrovato Antonio Banderas e il suo Zorro più movimentato, un po’ fuori di testa a furia di tutti i biscotti che ha sfornato ma fisicamente in forma smagliante, evidentemente l’aria di campagna è un autentico toccasana.
Per lui, mai tanto valido il detto “la vecchiaia è una brutta bestia, a chi prende alle gambe e a chi alla testa”.
Fa poi sedere a capotavola il buon vecchio Mel Gibson, con le sue splendide rughe che non temono di essere scrutate e i suoi occhi azzurro mare da pazzo lucido, ad illuminargli il viso non artefatto.
A lui l’onere di incarnare uno spietato villain, l’altra faccia della medaglia expendables, il traditore avido e corrotto, una volta leale compagno di battaglia, oggi acerrimo nemico e criminale di guerra, ufficialmente ricercato dal Tribunale dell’Aja, ufficiosamente da eliminare, riciclatosi trafficante d’armi, che coltiva il capriccio extralusso del collezionismo d’arte lecito e non.
Poco dinamismo e tanta mimica facciale, pilota una dura controffensiva antimercenaria nella sua fatiscente stanza dei bottoni sporcandosi personalmente le mani solo nel gustoso finale che i fan di Sly sapevano non sarebbe mancato, avendo il nostro citato in progressione i suoi personaggi maggiormente impressi nell’immaginario collettivo (e che hanno fatto la sua fortuna) con spiccato gusto cinefilo: basta un dettaglio, come un paio di (quegli) occhiali, un (quel) cappello, una fune e dei guanti, un coltello da caccia, una nuotata nel fiume con assalto finale, una frase lapidaria --- “io sono l’Aja” che fa tanto rima con “tu sei il male ed io sono la cura” del cobra di lontana ma non di certo dimenticata memoria ---
A ciascuno il suo, pare dire il supervisore Sly, regalando ad ognuno pochi ma sostanziosi momenti di gloria personale, mentre la mdp, manovrata dal giovane australiano Patrick Hughes (voluto da Stallone dopo aver apprezzato il suo primo lungometraggio Red Hill) tallona senza sosta i suoi uomini, seguendo come un’ombra le loro incredibili folli peripezie, mentre ci consegna una visione artigianale dell’azione (supportata da un buon lavoro sul montaggio) cui il nostro occhio pare essersi disabituato (eccetto rari casi, come in Lone Survivor della stagione passata).
Acquistando in fascino e verosimiglianza.
Il resto lo fanno le suggestive, devastate e desolate, location dell’est Europa e, naturalmente, la simpatia dei nostri beniamini “in età da infarto” (alla faccia dell’eterna giovinezza estetica), entusiasti contagiosi di questa trascinante divertita e divertente rimpatriata.
Per grandi e per piccini.
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