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Cardillac

Regia di Edgar Reitz vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Cardillac

di sasso67
8 stelle

Tra Mahlzeiten (1966) e Cardillac (1969) c'è il Sessantotto. Edgar Reitz, classe 1932, è un contestatore del vecchio cinema tedesco: insieme all'amico Kluge, è probabilmente il regista più prestigioso tra i sottoscrittori del Manifesto di Oberhausen (1962), la pietra miliare del movimento passato alla storia come Nuovo Cinema Tedesco. Eppure, a 36 anni, è troppo vecchio per poter entrare in sintonia con i giovani contestatori sessantottini. In appena sei anni, Reitz da contestatore è diventato contestato e girando Cardillac ha problemi con la propria troupe, tanto che un giorno la sua macchina da presa viene «sequestrata» da Ulrike Meinhof (che diverrà tristemente famosa come capo dell'organizzazione terroristica R.A.F.), che stava a sua volta girando un film. I contestatori imputavano a Reitz il suo ruolo dittatoriale da regista, rivendicando all'intero gruppo artistico e tecnico la responsabilità della realizzazione del film. Di questa impostazione si trovano diverse tracce nell'opera finita, dove gli attori discutono, guardando dritto in macchina, dei personaggi che sono chiamati a interpretare. Com'è immaginabile, non partecipò a questo clima l'attore protagonista Hans Christian Blech, all'epoca già oltre la cinquantina ed alieno dalle rivendicazioni delle nuove generazioni. Spazientito, l'interprete abbandonò temporaneamente il set, anche perché aveva altri impegni e poco tempo da perdere.

Singolarmente, Cardillac parla proprio di un artista vecchio stampo, solipsista, dittatoriale, anche un po' capriccioso e pieno di sé. Condito di aspetti feticisti, il protagonista ogni domenica mattina sveglia la figlia e la osserva nuda mentre indossa i gioielli da lui creati. Geloso della propria opera, l'orafo non accetta le regole del mercato né di separarsi dalle proprie creazioni, tanto è vero che inizia ad uccidere uno ad uno gli acquirenti dei manufatti, per riappropriarsene.

Il film, in sostanza, dà l'impressione di non centrare lo spirito del tempo e, contestualmente, risente di una struttura frammentata che è molto, invece, nello spirito del tempo. È inevitabile, comunque, che per tutte queste ragioni Cardillac non ottenne alcun successo di pubblico ed ebbe scarsissima attenzione da parte della critica. Con il senno di poi, si possono notare alcune caratteristiche ed alcuni pregi che in futuro si riscontreranno in Heimat. I maggiori collegamenti con il capolavoro sono formali e colpisce l'utilizzo intelligente dell'alternanza tra bianco e nero e colore. Sarebbe esercizio sterile cercare ogni volta, in maniera pedante, quegli elementi dell'opera di Reitz precedente a Heimat che anticipano quel lavoro. La trilogia di Heimat con le sue varie appendici e perfino una sorta di prequel è un cosmo, mentre Cardillac, ispirato a un racconto del primo Ottocento scritto da E.T.A. Hoffmann, rivisitato sotto forma di saggio sul ruolo e la solitudine dell'artista, è una storia conchiusa in sé stessa e - viene da pensare - un'esperienza non positiva per il regista.

È difficile innamorarsi a pieno di Cardillac, ma non è da sottovalutare all'interno del percorso artistico di Reitz, abbastanza accidentato in vista dell'opera fondamentale della sua vita. Con qualche ingenuità, il regista si riallaccia anche alla sua opera precedente, rispetto alla quale ripropone un lungo, laborioso, ostinato, ineludibile suicidio.

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