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Metalhead

Regia di Ragnar Bragason vedi scheda film

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La recensione su Metalhead

di EightAndHalf
6 stelle

 

Oltre alla ovvia, scontata, apparente apatia, topica nella maggior parte delle pellicole del Nord Europa, una sorta di tratto distintivo che riesce, nelle opere più fortunate, a non apparire etichetta, in Metalhead riscontriamo il desiderio quasi infantile, ingenuo, e per questo onesto, di dare luce alla nuova tendenza musicale, quella del black metal, cominciata nelle profondissime lande norvegesi all’inizio degli anni Novanta fino ad estendersi in molti anfratti del mondo aiutata dalla grande provocazione che essa rappresentava: esteticamente e musicalmente, tonitruanti armonie ritmiche che straziano la melodia classicamente intesa o la sacrificano quasi del tutto, estremizzando gli insegnamenti del metal più violento; tematicamente, inni alla morte, al sangue e, quando va bene, solenni invocazioni a Satana più ostentate che veritiere, comunque. L’ultima frontiera del trend giovanile atto a fomentare attriti fra le generazioni, e in questo caso la tensione emotiva si viene a creare fra la protagonista, Hera, e i genitori, dopo che il fratello appassionato di musica muore in un terribile incidente con una falciatrice. Fra loro distanti nelle modalità in cui affrontare il lutto, i componenti di questa famiglia di allevatori, immersa in un quieto ambiente quasi desertico e giganteggiante, all’interno della più gelida Islanda, finiscono per condannare le loro vite. E in particolare Hera, desiderosa di far rivivere in qualche modo il fratello, e non solo con la memoria, inizia a coltivare la passione della musica, nutrendola a sazietà fino all’agognata creazione di una nuova canzone.

 

 

 

In totale rottura con gli abitanti del suo villaggio, Hera cerca di creare, in maniera disordinata e anarchica, una nuova figura di ribelle, rivelando pubblicamente il suo astio nei confronti di ciò che è politicamente corretto e disintegrando le abitudine routinarie di un mondo isolato, ai confini della Terra, benché vivissimo e pulsante. Hera guida ubriaca trattori, si mette a “pogare” durante una festa di paese, fa partire la musica nel mattatoio dove lavora, cerca di portarsi al letto il sacerdote metallaro, e infine cerca di trovare una folle catarsi per dare un senso alle sue sregolatezze. La ricerca affannosa della protagonista, che non riesce comunque a sfondare i confini del più efficace – e prevedibile - maledettismo, è inseguita altrettanto affannosamente dal regista Ragnar Bragason, che preferisce alternare più generi e toni (dal divertente al melodrammatico, fino al tragico più radicale) piuttosto che dare inizio a un discorso stilistico/formale nel vero senso del termine. In tal senso si rifugia in un certo didascalismo figurativo che concentra l’attenzione sui contenuti piuttosto che sulla forma, riducendo Malmhaus a una curiosità esile non del tutto inutile.

I personaggi che il film ci presenta sono poco presentati come giustificati dall’”insondabilità” del dolore umano: la madre trova ogni occasione per ricordare la morte del fratello, il padre cerca di mantenere stabile la famiglia, Hera trova tutti i modi per alimentare la sua passione, cercare di vivere il momento e non avvertire più quel costante senso di morte che incombe sulla sua anima. Ma l’eventuale complessità delle introspezioni è gettata ai rovi quando il film prende una piega edificante, “corretta”, distante insomma dai presupposti di quella metallic wave che ebbe comunque la sua importanza storica e intima in alcuni individui, ma che qui è appunto quasi del tutto dimenticata, quasi come un appiglio per far parlare di sé. Dall’entrata in scena del prete appassionato dei Venom, dall’arrivo dei tre musicisti che hanno “scoperto” la musica di Hera, fino alla pacifica piega che prendono gli eventi, il film diventa molto, troppo innocuo, troppo poco incisivo (specie a fronte di un inizio relativamente potente, comunque non troppo patinato), non sufficientemente brillante. Benché un tono “leggero” sia in qualche modo inseguito, è proprio quello il fautore dell’”esilità” della pellicola, spazzabile via dalla memoria con una folata di vento meno forte e meno gelida di quella che porta con sé la catarsi di Hera verso la fine del film.

 

 

Nonostante tutto, però, le immagini finali riescono, istantaneamente, a intenerire, sulle note dei Megadeth.

 

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