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Cristo Rey

Regia di Leticia Tonos vedi scheda film

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La recensione su Cristo Rey

di OGM
7 stelle

Cristo Rey. Strano nome per un barrio dove la luce è la grande assente. Spesso la corrente salta, ed allora il buio scende sulla Terra. Ci si vede appena, mentre si combatte e si muore. Tutto è scuro, come la pelle degli immigrati clandestini e malvisti, che vengono dall’altra parte dell’isola, e che a Santo Domingo sono i paria che nessuno vuole. Delinquono e vengono cacciati. Non si salvano nemmeno quando amano. Questa è una favola nera. Romantica e spietata come un lungo tramonto, che si fa attendere, protraendo l’attesa della fine. Janvier ha un nome d’inverno. È figlio di un errore, frutto della relazione tra un uomo bianco sposato ed una donna haitiana. Ha due fratelli, ma per modo di dire. In fondo è rimasto solo, ora che sua madre è stata arrestata ed espulsa. Sa lavorare e vorrebbe essere onesto, invece si trova legato a doppio filo col crimine, per legami di sangue, per ragioni sentimentali. In quel regno di baracche e viuzze sterrate  il sovrano  si chiama El Bacà. È un omone dalla faccia bonaria, che però vive di traffico di droga e di chissà quali altri loschi affari. Un orco solo a metà, che comanda tutti  a bacchetta, però in fondo non fa paura.  Il vero mostro è un altro: è la miseria vissuta come condanna, insieme a quella dannazione che è incisa nei muri del quartiere, e che impedisce di seguire il bene, anche quando si avrebbero i mezzi per farlo. Rudy va all’università. Il padre ha un’officina, non è certo ricco, ma i soldi non mancano. Eppure c’è un pungolo nascosto, che  induce quel ragazzo a desiderare di più, a cercare il proibito, a entrare in guerra contro una felicità che gli sembra forse troppo ordinaria, troppo modesta, troppo innocente. Da quelle parti, la gioventù brucia di un fuoco misterioso. È una fiamma che consuma lentamente l’anima, ma non produce chiarore. La sua energia è un’inquietudine che proviene da un passato sconosciuto, affonda le radici in un’antica maledizione, che riempie i cimiteri e rende i bambini orfani e vagabondi. Dopo La hija natural, Leticia Tonos Paniagua torna a presentare l’infanzia come la notte della vita, il tempo in cui si compiono i sortilegi di cui poi si perde la memoria, ma i cui effetti sono terribilmente duraturi. Si nasce dove e come non si dovrebbe, e il destino parte col piede sbagliato. Impossibile recuperare l’iniziale svantaggio. La ricerca si smarrisce in un deserto in cui la sola legge è quella che impone di non cambiare nulla, di stare zitti ed andare avanti come se niente fosse, perché la situazione è complicata, e non se verrebbe mai a capo. Inutile tentare di capire. Le storie come questa non possono che procedere a tentoni: poco a poco, e con grande fatica, si sforzano di infrangere la scorza dell’evidenza, il volto di pietra di un mondo immobile e governato da crudeli gerarchie, per svelarne le sotterranee fragilità, che aumentano il dolore, senza con ciò attenuare l’imperante cinismo. Persino il colonnello Montilla, il poliziotto corrotto e non meno tiranno di un boss della malavita,  sotto sotto è un uomo; ma questo non importa, senza  contare che, in fin dei conti, non serve a niente. Sono in molti ad avere un cuore, compreso lo stesso El Bacà: ma c’è una corrente infernale che circola, in quel labirinto di emarginazione, e che sparge su tutto un gelo fatale. Bisogna comunque portare la rabbia alle estreme conseguenze. Occorre andare fino in fondo, tentare il tutto per tutto, perché solo così l’inevitabile tragedia potrà trovare il suo compimento. Ci vuole poco, del resto: basta il solito stanco giro di giostra di una normalità perversa, in cui è scontato uccidere, rubare, tradire, mentre scappare per salvarsi è una mossa da vigliacchi. Il vortice solleva la polvere e stende sulla realtà un opaco velo di banalità: un grigiore che  imbriglia l’asprezza del racconto, fin quasi a donarle le dolci sfumature dell’esitazione. Si apre, allora, nella trama ruvida e spessa, uno spiraglio in cui si può magari provare a sognare. Ma la nicchia è spoglia, e i suoi occupanti insicuri.  Sarà per questo che l’epilogo è quello, naturale, che uscirebbe da qualunque mente acerba, incline al dramma per vocazione adolescenziale. Leticia Tonos Paniagua abbraccia quell’immaturità con la passione di una donna attaccata alla propria terra:  una terra fertile ma poco solida, che partorisce ma non sa allevare. Una madre che ti lascia bambino, incapace di essere diverso, di essere buono e giusto  in un immenso mare di malvagità.

 

Questo film ha rappresentato La Repubblica Dominicana agli Academy Awards 2015. 

 

scena

Cristo Rey (2013): scena

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