Regia di Benedikt Erlingsson vedi scheda film
Stupidi e crudeli. Selvaggi e bizzarri. Lo possono diventare, all’improvviso, gli uomini e i cavalli. A volte si rende loro complice il destino, nel far uscire la realtà dai binari della razionalità. L’arte dell’equitazione è una perfetta fusione di disciplina e bellezza, ma il controllo del dressage non basta a contenere l’indomabile: le pulsioni dell’istinto, la forza degli elementi, il richiamo della libertà. L’Islanda ritratta in questo film è uno sfondo deserto ed inclemente, che guarda agli eventi da lontano, senza parteciparvi emotivamente, e senza intervenire per modificarne il corso. Tutto è in mano agli esseri viventi, che in quel mondo muto e indifferente facilmente si perdono, un po’ perché assopiti dall’abitudine, un po’ perché ignari del pericolo, che sopraggiunge sempre senza preavviso, Non si ha mai la percezione di ciò che sta per accadere: il silenzio e l’uniformità creano un’illusione di pace, che tranquillizza gli animi, lasciandoli del tutto impreparati alle emergenze. Così, dal nulla può scoppiare una passione animalesca, o una devastante fiammata di rabbia, o ancora un cieco tripudio privo di significato. La giungla della vita, nella quale i sensi si confondono, non ha necessariamente la forma esteriore del solito affollato labirinto metropolitano: può anche essere, al contrario, un anonimo deserto che stordisce con la sua insulsa vastità. In questo scenario ogni parola, come ogni gesto, sembra anomala ed immotivata, per la semplice ragione che niente le fa eco: in quel contesto così ottusamente dispersivo, l’individualità è un’estemporaneità che rimane isolata ed incompresa. Ognuno coltiva per se stesso, e con immenso dolore, le proprie strane e disperate idee, che sfociano in sacrifici apparentemente inutili, eppure inevitabili, secondo la misteriosa logica di una natura che si diverte a superare i limiti del sopportabile. Il cinema nordico è pieno di situazioni atrocemente subite e maledettamente inafferrabili, in presenza delle quali l’unica reazione coerente e spontanea conduce dritta alla follia.
Questa storia non è da meno, nel proclamare, con grottesca rassegnazione, l’umana impotenza di fronte alle energie cosmiche che si aggirano fra noi come spettri, con il compito di far rispettare la legge sinistra che regolamenta l’universo: è quella nefasta ciclicità con cui la morte si ripete, periodicamente, celebrando ogni volta gli stessi riti, dalla sorpresa per quell’incontro finale, all’ipocrisia con cui si ricopre il pudore di non sapere che dire, né cosa pensare. Benedikt Erlingsson coglie, in un ambiente che mette tutto a nudo, e non conosce mezze misure, la piccolezza di una specie – la nostra – che, pur avendo a disposizione uno spazio misurato, tende a mantenersi all’interno di luoghi ben delimitati, seguendo percorsi abituali, e senza mai sconfinare, nemmeno con i sogni: fantasie banali e perverse che rimangono fatte di carne e sangue, e non si staccano dal fangoso tumulto che pervade la terra.
Hross i oss ha concorso, come rappresentante dell’Islanda, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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