Regia di Tim Sutton vedi scheda film
Periferia, sogni, spazzatura e fantasia. Trash e religione. Kitsch e magia. Fruscio di strade, vento e pioggia, crepitio di confessioni, prediche e discorsi da bar. Nei sobborghi di Memphis la musica è una calorosa cadenza che si sovrappone al ruspante ticchettio della normalità. Un’umanità in transito produce, per gioco o per fede, melodie ritmate da cogliere al volo. Lo sguardo rivolto alternativamente alla terra e al cielo, al vuoto esteriore e a quello interiore, trasforma la noia dilagante in una creativa forma di indolenza. Lo scatto del ciac isola, dalla disordinata uniformità di una discarica inondata di sole, singole miniature di armonia: sono i brevi intervalli strappati al caso, in cui ogni essere umano sembra, per un attimo, compositore e coreografo della propria vita, mentre compie giri di danza con la bici, usa la scopa come una bacchetta magica, o il proprio corpo come cassa di risonanza di emozioni a lungo sopite nell’animo. Questo film non è solo il ritratto di un cantante un po’ vagabondo, un po’ illusionista, un po’ pensatore maledetto. È anche e soprattutto l’arpeggio di un’atmosfera sonnolenta che è la culla di paglia di un certo tipo di musica, quella che prolunga naturalmente il battito del cuore, zigzagando per le ultime vie scavate dalla civiltà. Le azioni ed i pensieri affondano nella melma. I fucked the dirt. Anche con la sporcizia si può fare l’amore, soprattutto quando è morbida e calda, come la terra che ha assorbito la luce del giorno ed il respiro degli uomini. In questa storia, che procede per sprazzi di bellezza selvaggia, ogni gesto, ogni espressione è un palpito della fisiologia di un organismo complesso, che è abitato da mille anime indipendenti, e non smette mai di creare, per vizio, per divertimento, per disperazione. Il film di Tim Sutton affida la narrazione all’eco polifonico di versi primitivi, che sono ancora lontani dal diventare parole. Sono la colonna sonora di quel realismo assorto ed languidamente improvvisato che di solito caratterizza il cinema sperimentale contemporaneo: l’immagine appare costruita solo perché sapientemente composta di stracci, rottami, rovine e vari residui di distrazione. In mezzo a quel mutevole teatro in disarmo il racconto va spontaneamente a pezzi, si frammenta in sequenze di note, in accordi in libertà, in una canzone intonata a bocca chiusa. L’incanto discontinuo è pieno dello spirito del soul-blues, che tratteggia il mondo con la mano tremante di chi scorge ovunque sfumature proibite, accenti sbandati, tendenze deviate. La vibrazione è il drappeggio del sottinteso. E lo svolazzo ribelle dell’orgoglio di sopravvivere.
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