Regia di Wang Bing vedi scheda film
"Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale ([...]); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento. L'assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l'essere costantemente in balia degli altri [...]: questo è lo shema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell'asilo." [Franco Basaglia, psichiatra italiano].
E il ritmo, in un manicomio dello Yunnan, è sempre uguale, sempre distruttivo.
Feng Ai prescinde ogni tema, e arriva a parlare dell'essere umano in toto. Così come avveniva in Tie Xi Qu, in He Fengming e in San Zimei, andando ben oltre la semplice denuncia sociale, che avrebbe potuto occupare solo mezz'ora. Così come negli altri suoi lungometraggi, Wang Bing cerca qualcosa. Il suo sguardo è come qualsiasi altra cosa dentro quell'ospedale: sporco, basso, quasi inerte, umile. Solo ha dalla sua quello di poter estendersi, farsi contemplare. La vita degli internati invece no, è il residuo di un'umanità che si vuole dimenticare. E il merito di Bing, che la rende oggetto cinematografico, non è semplicemente quello di "rivelare" e "mostrare", ma quello di "coinvolgere" nella maniera più viscerale. Anche perché a poco a poco le metafore si fanno sempre più esplicite, sempre più evocate, così come la pietas, che cresce a dismisura e cozza con dilemmi terrificanti. E' la sacrosanta verità che dentro quell'ospedale stanno anche "prigionieri politici" che dànno in qualche modo fastidio allo Stato, ma anche se non fosse così, questo girone infernale contiene dopotutto vite umane, pazze o meno, e già questo la dice lunga sulla capacità e sulla volontà, da parte dell'uomo, di voler preservare la dignità dei suoi simili.
Pur facendo parlare solo la realtà (in cui Bing interviene ma da cui al contempo si sottrae, in un giocoforza di distanza e partecipazione che rende il suo sguardo in fin dei conti neutrale, con conseguenze altamente stranianti), Feng Ai diviene l'espressione più bassa della condizione umana, un vicolo cieco in cui più vivi più diventi pazzo. Non è un caso che "la follia sia una condizione umana" [idem], e che nella mente dei "folli" ci sia gran parte della "normalità" umana: il binomio follia e sanità mentale è sempre stato ricorrente, nella storia dell'uomo, ma qui più che altrove rivela proprio come il discorso si estenda a qualsiasi essere umano. V(i)olenti o non v(i)olenti, gli uomini hanno bisogno di umanità, di calore, di emozioni che possono nascere solo dal contatto con altri. E gli uomini che Bing ci mostra sono invece abbandonati a loro stessi, a svolgere le loro funzioni più basse e istintive, a cercare, come cerca Bing, un qualcosa che a poco a poco si rende definito: un'identità. Perché nel buio di questo girone infernale (il manicomio si sviluppa come un quadrilatero intorno a un cortile, completamente chiuso da delle inferriate), il non-ritmo esistenziale e la bassezza del quotidiano portano l'essere umano a un autoannullamento inevitabile, fatto di lerciume, di liquidi organici, di cibo sporco, di coperte consunte, di vestiti strappati, di stanze vuote e asettiche. Prigioni. Ecco perché solo muovendosi, camminando, percorrendo quella che - ci illudiamo - sia una strada di vita, l'uomo può cercare di (ri)creare se stesso e un senso.
Bing insegue, ma i suoi protagonisti camminano o corrono troppo raramente. Come animali in gabbia, girano in tondo nello stesso luogo, in uno stesso inferno, e il percorso sempre uguale ricorda loro che nulla può cambiare. E Bing ci fa capire cosa voglia dire questo, facendoci correre. E l'unica sequenza che si avvicina a questa, in cui il regista insegue un ricoverato che corre a petto nudo per la totalità del corridoio quadrangolare, è quella nel finale, in cui un uomo uscito dal manicomio cammina per strada sul far della sera, e lo lasciamo che si addentra nel buio. Dentro, fuori, non c'è differenza. Solo dentro, più concretamente, più evidentemente, capiamo cosa siamo noi stessi. Soprattutto se parliamo di una Cina che ancora si nutre di censure, di maltrattamenti, di delirio.
Feng Ai è la vetta del cinema di Wang Bing, un terribile apologo sulla condizione umana. Angosciante e emozionante come poche altre cose può capitare di vedere.
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