Regia di Claudio Di Biagio vedi scheda film
Andare via. O spaccare tutto. Con la complicità della terapia, la malattia dell’anima riesce a scendere a patti con la realtà, semplicemente sfumandone i contorni. In questo modo anche l’orrore può entrare a far parte di quel sogno vago che è l’impronta sbiadita dell’incubo. Là fuori, in mare aperto, non c’è la terra a fare da sostegno. L’individuo ha solo se stesso come punto di riferimento. Ma la coscienza di sé non appartiene al presente: è prigioniera del passato, come per Valerio, che vive nella scia sinistra di un atroce ricordo rimosso, oppure è del tutto estranea al tempo, come per Eva, che vede, fa e dice, e poi subito dimentica. La gita in barca di un gruppo di pazienti psichiatrici, intesa come attività di riabilitazione, si trasforma in un’avventura verso l’ignoto, che scioglie i vincoli delle regole, del dovere di perseguire la normalità, e spinge ognuno a vivere secondo la propria personale visione delle cose. Lo sguardo sull’infinito è un invito alla libertà. In quello scenario arioso, uniforme e silente l’ossessione si stempera, per mancanza di rimbombo. E la perdita di controllo si confonde in una pacata deriva dello spirito. Il film di Claudio Di Biagio affronta il tema del disagio mentale con i mezzi toni che suonano come un impegno alla cautela, all’osservazione prudente di ciò che di cui non si può cogliere il senso, e che pure non si manifesta con gli stridori dell’assurdo. I protagonisti di questa storia percepiscono il mondo attraverso una luminescenza soffusa, di cui l’obiettivo ci restituisce l’aura tiepida, accompagnata dalla fatica di mettere a fuoco gli eventi esterni e le sensazioni più intime. La trama segue il diradarsi della nebbia dell’incomunicabilità, a cui si sostituisce gradualmente l’incanto dell’equivoco condiviso. A prima vista il racconto sembra debole, affidato all’incedere pesante di un’incertezza patologica: l’incapacità di prendere decisioni si rivela, però, un freno che crea la tensione narrativa, avvolgendo i fatti nel torpore dell’attesa. Tale mancanza di chiarezza è infatti l’origine della paura di non capire, di non essere all’altezza, di smarrirsi in maniera imprevedibile nell’oceano delle possibilità inespresse. Il dramma, in questo caso, è principalmente frutto dell’indeterminatezza, dunque il suo arrancare è parte del gioco, insieme ai suoi indugi e alle sue stonature. A questo film si può contestare la sua natura errabonda, ondeggiante tra personaggi in parte monotematici, in parte non nettamente caratterizzati. Ma forse la psicosi è uno spettacolo a cui si assiste necessariamente attraverso uno spioncino, con un punto focale dettato non dalla logica, bensì dalla rigidità di una prospettiva convenzionale, ancorata alle nostre consuete categorie di pensiero. Andarevia è un bozzetto indipendente, che traccia con mano malferma il percorso barcollante di una fuga: un’opera scritta, interpretata e girata di getto, magari immatura, ma gradevolmente sincera.
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