Regia di Mong-Hong Chung vedi scheda film
Ma l’anima viene e va. Non si tratta di una malattia mentale. È la naturale trasmigrazione delle passioni, delle memorie, dei legami che non sono mai eterni. Questi sono delicati come orchidee, esposti al vento, alle intemperie, costantemente costretti a fuggire, ad arrampicarsi su per impervi sentieri, a nascondersi nel fitto dei boschi. La verità è una creatura cupa e selvaggia, che ha stabilito il suo habitat lontano dalla città. Nella metropoli si respira solo una raggelante normalità: quella del cinismo spicciolo, che affetta pesci ancora guizzanti per preparare il sushi nella cucina di un fast food. Un ordinario orrore illuminato dai tubi al neon, a cui il giovane A-Chuan non sa resistere. Prima si blocca e trema, poi cade a terra svenuto. In quel momento muore alla luce, si inabissa in un oblio che lo rende altro, estraneo al proprio presente, ed astioso nei confronti del proprio passato. È uno sconosciuto che si intrufola nella casa del padre, portandovi violenza e scompiglio. È uno spettro venuto a ricordare a tutti la fragilità dei rapporti, delle abitudini, delle finzioni, che non reggono all’opprimente peso del rancore. Questo è il vero mostro invincibile, che non ha pietà per niente e per nessuno, e soprattutto non sopporta la menzogna, l’indifferenza, la voglia di rimuovere i dolori e guardare avanti. La psicologia di questo thriller taiwanese è l’indigesto impasto dell’ossessione che assume precise sembianze fisiche, che si traduce in gesti folli e genialmente crudeli, che affonda le unghie nella carne e vuole vedere schizzare il sangue. Si nutre del gusto di straziare la vita pulsante e inconsapevole, quella che si lascia cogliere di sorpresa da una forza distruttrice inattesa ed insensata: un’energia che compie la sua micidiale missione di scuotere le coscienze dormienti, adagiate sulle certezze prodotte da identità che si credono definitivamente acquisite, e da unioni date per scontate. Il figlio ed il fratello, d’un tratto, possono smettere di essere tali. L’amico di vecchia data può trasformarsi in un nemico mortale. Uno spirito abbandona il suo corpo e ne occupa un altro, ridefinendo daccapo i contorni di una storia. La furia assassina è la veste mitica della ribellione diabolica e dell’onnipotenza divina: è la devastazione epica in cui si trasfigura il desiderio di dire basta, di non perdonare, di cambiare il mondo, di ricostruirlo su nuove basi. Nel film di Mong-Hong Chung questa idea è trasferita sul piano di una umanità primitiva, simbolicamente collocata nella solitudine dell’ambiente silvestre, dove l’istinto trova il suo sfogo più diretto e vorace, attraverso i fatti compiuti in silenzio, che non necessitano della mediazione del linguaggio, né dell’avallo della logica. L’allucinazione è l’espressione più consona a questo nonsenso concreto e rudimentale: fa apparire cose e persone dal nulla, incurante della concatenazione di causa ed effetto, e le rende subito familiari, plausibili, perfettamente funzionali allo sviluppo degli eventi. Un messaggero sconosciuto, piombato chissà da dove, spiega la situazione e fornisce soluzioni, metafisiche ma ben radicate nella materia, come un pozzo di cui si non veda il fondo, o una barattolo di bilie sepolto in un giardino. Anche la trama del racconto rimane celata sotto terra, dove protende le sue ramificazioni misteriose, mentre in superficie la sua oscura influenza si palesa in un bizzarro gioco realizzato con gli oggetti più diversi, grandi e piccoli, innocui o pericolosi, dall’automobile ad un pezzo di griglia, protagonisti di incubi terribili e di perverse fantasie. A manovrarli è il turbinoso campo magnetico dell’inquietudine, che propaga, nello spazio e nel tempo, le onde dei terrori sopiti: un trauma infantile, la paura di vedere il proprio futuro scritto nell’immagine di un dramma familiare in cui si è usata la ragione per obbedire alla pazzia. È meccanica, bestiale e straniante l’atmosfera di questa favola al contrario, in cui essere speciali significa essere infinitamente tristi e inverosimilmente spietati: sofferenti come uomini dotati di un cuore, ma insensibili come macchine prive di cervello. La ferita interiore è il logos creatore che innesca un sanguinoso processo di rinascita. Lungo la strada ci si perde. Cade una frana e l’individuo si rivela per quello che è. Un bambino, intanto, si rimette in cammino verso la casa natia.
Soul ha concorso, per Taiwan, al premio Oscar 2014 pe il miglior film straniero.
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