Regia di Luigi Magni vedi scheda film
Riproporre alla visione un film dimenticato come questo, serve a riflettere sulla caducità del potere e la differenza di comportamento degli uomini di potere, allora ed adesso. Serve a rivalutare questo film e un bravo regista che ci ha lasciato. Serve a considerare la storia spogliata di orpelli e leggerla realisticamente.
Rai Storia ha riproposto in questi giorni un film dimenticato di Luigi Magni che, a distanza di mezzo secolo, è ancora, secondo me, valido ed interessante. Riproporre certi buoni film dimenticati è meritorio ed in più ci permette un certo estraniamento dal periodo di uscita del film (1971) che ci aiuta ad analizzarlo con la lucidità che il senno del poi consente.
Direi, anzitutto, che ci sono due modi per raccontare la Storia. La prima è studiarla sui libri; la seconda è studiare le fonti, trascorrere giornate in archivi e da lì tentare una narrazione corretta e onesta. Ce n’è però una terza, molto stimolante. E’ quella che tenta Luigi Magni. Molti suoi film hanno come ambientazione Roma, in particolare quella ottocentesca, quella della Repubblica Romana, la Roma dei vari papi re e dei carbonari. Magni conosce bene quel periodo, ma quel che interessa sottolineare è l’approccio, tutto suo, agli avvenimenti storici. La Roma di Magni è quella del popolo, il popolo minuto, basso e incolto. Non racconta i grandi avvenimenti, si limita ad accennarli, fuori scena. Come se i veri protagonisti della Storia non fossero i grandi personaggi, ma i popolani, i pecorai, i ciabattini, i maniscalchi, i vinai e il basso clero. Se sono loro a fare la Storia è giusto che la lingua sia il romanesco e non l’italiano che quasi nessuno parlava in quel tempo a Roma. La scommessa è però di quelle toste: come fare per interessare la gente e nel contempo interpretare un momento importante della storia? Come conciliare cioè i gusti semplici e il palato non tanto raffinato della massa e narrare, rispettando gli elementi storici accaduti, senza cadere nella farsa, come tanti prima di lui hanno fatto?
Si può fare storia senza annoiare? Si possono interpretare fatti storici reali senza cadere nella retorica o nella banalità?
Prendiamo il film in esame. Questa volta, invece della Roma ottocentesca, e invece dei soliti plebei e dei poveri cristi, si parla di fatti concernenti Lucio Cornelio Scipione l’Africano. Catone, non ancora censore ma senatore ed ex console, mette sotto accusa, assieme ad altri senatori, Scipione l’Africano e suo fratello, l’Asiatico, per essersi intascati 500 talenti che il re della Siria, Antioco III, aveva pagato a Roma come risarcimento per le spese di guerra da Roma sostenute. Il fatto è autentico. Avviene nel 189 avanti Cristo. Va ricordato che Scipione aveva sconfitto definitivamente Annibale nel 202 a Zama, in Africa. Chi è Catone? Oggigiorno spaccherebbe in due la società: da un lato, gli onesti e dall’altro i corrotti. Il problema è che Catone come tutti gli incorruttibili, è profondamente odiato da buona parte della Roma “bene”: i suoi attacchi al lusso, alla moda, che si sta diffondendo sempre più, dell’ellenismo, alle mollezze e intemperanze, soprattutto delle donne (che infatti lo odiavano). Questa furia censoria, la esplica dopo il 184, quando è nominato censore. Tuttavia, è noto che anche in precedenza non risparmiava reprimende a nessuno. Nel nostro caso, Catone (tra l’altro un ottimo tribuno militare) abbandonò gli Scipioni e se ne tornò a Roma, proprio durante la campagna d’Africa (e di Zama), disgustato per le esagerate donazioni alle truppe e lo sfarzo di cui gli Scipioni si circondavano.
La collocazione storica scelta da Magni è, come ricordato, il 189, quando cioè Catone accusa Scipione. Sono passati ormai 13 anni da Zama, Scipione comincia a capire quale sia la caducità della fama. I ragazzini non sanno più che cosa è accaduto a Zama, i senatori non si inchinano più al suo passaggio, Emilia, la moglie dell’Africano, lo abbandona. Catone, intuendo che è arrivato il momento giusto, lo attacca. Il Senato viene informato delle accuse infamanti di malversazione e corruzione. Le accuse sono gravi: come non credere a un uomo, famoso ormai per la rigidità dei suoi costumi, per la sua estrema coerenza, per il rispetto quasi maniacale per i “mores” repubblicani. Ma, dietro questa aureola di onestà integerrima, forse si nasconde gelosia, invidia elementi questi che, nella storia, hanno portato alla “damnatio memoriae” o all’oblio illustrissimi personaggi. Scipione si trova in difficoltà. A poco valgono le sue gesta, il suo più illustre titolo di merito e cioè quello di avere sconfitto per sempre il nemico più terribile di Roma, quell’Annibale che avrebbe potuto distruggere per sempre Roma.
Eppure, anche in questa circostanza, non tutto è contro Scipione. Lo stesso Catone, ad esempio. I più non lo sopportano. I senatori sono dei privilegiati e Catone si batte da sempre contro ogni privilegio. Se da un lato quindi, Scipione si trova in pericolo, dall’altro, il Senato è incerto sul da farsi. Ancor prima di affrontare la condanna infamante del Senato, Scipione decide l’auto-esilio. Un atto nobile, certo, che il regista vuole sottolineare. Così come il suo triste addio a Roma, non più sul suo destriero bianco, ma su un carretto umilissimo che sta lasciando l’urbe. Emilia, sua moglie, ben interpretata da Silvana Mangano in una scena tra le più riuscite, gli confessa che non l’ama più e che un tempo l’ha pure odiato. “Come si fa – dice - ad amare un mito, un uomo troppo perfetto, un semi-dio? Io volevo un uomo, con i suoi difetti e i suoi errori”. Scipione china la testa e si siede. Si trova solo, con un passato che ormai sta tramontando e un futuro pieno di incertezze.
Magni non ha diretto questo film per tentare una lezione di storia. Ogni suo film è strettamente legato all’attualità. La corruzione, diciamolo chiaramente, è un leit-motiv nella nostra storia. Al tempo della produzione del film, si percepiva chiaramente lo stato della questione morale; lo scandalo Lockeed e Mani Pulite dovevano ancora scoppiare, ma i nodi irrisolti della corruzione a tutti i livelli stavano per essere affrontati. Eppure, quasi a sottolineare la gravità della situazione, Magni introduce il tema dell’auto-esilio di Scipione come un aspetto positivo, un gesto nobile che non trova però gesti simili nell’attuale (1970) situazione politica italiana, dove l’istituto delle dimissioni non trova risposta (La troverà il presidente Leone, che si dimetterà, anche se innocente, come appurato in seguito per i fatti contestatigli, da presidente della Repubblica). La differenza, pare voglia dire, sta nel mettere a confronto uomini del passato che, pur gloriosi, hanno ceduto il passo ad altri mentre ora…
Tuttavia, ridurre tutto questo a una semplice lettura dell’oggi è assolutamente errato. La lezione di storia che Magni vuole darci è quella di un invito ad una riflessione matura sul passato, dove tutto, ma proprio tutto, concorre a “fare la storia”, dove i fatti sono frutto di un concatenamento di azioni e reazioni, di evoluzioni ed involuzioni, di lenta e progressiva presa di coscienza, nonostante i vari “riflussi”, i cicli, le sconfitte , da parte di una massa di diseredati che reclama il proprio diritto a farsi valere e dall’altra, la tenace renitenza o resistenza di chi non intende allentare le redini del potere. Ma è anche un invito ad evitare le condanne ideologiche sommarie, nel nome di una falsa retorica secondo cui chi è oppresso ha sempre ragione e chi opprime è sempre nel torto. La traiettoria morale di Scipione (ma non solo lui) lo sta a dimostrare. E’ insomma un film sulla caducità del potere, sulla gloria passeggera.
La figura di Catone, infine, magnificamente interpretata da Gassman, ci ricorda che spesso l’invidia (il mostro dagli occhi verdi che disprezza il cibo di cui si nutre, come descritto nell’Otello) si cela dietro le sacrosante accuse ai corrotti. Spesso inoltre le più sordide miserie si celano dietro le candide vesti dei pubblici fustigatori.
La scommessa tentata da Luigi Magni, è, a parer mio, vinta. Forse non è riuscito a far ridere come tanti si aspettavano, forse addirittura è riuscito a scrivere qualcosa di serio avendo come base un avvenimento di più di duemila anni fa, sconosciuto ai più.
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