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Daisy Diamond

Regia di Simon Staho vedi scheda film

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La recensione su Daisy Diamond

di AtTheActionPark
9 stelle

Le infinite immagini allo specchio. Daisy Diamond, del talentuoso - e, in Italia, sconosciuto - regista Simon Staho, è un agghiacciante gioco di specchi, che striscia sinuoso tra i brucianti non-detti della vita. Un film che rivolge impudico il suo occhio, al contempo deformato e spoglio, alle meschinità del quotidiano, alle illusioni che sorreggono la vita (e il cinema). Un viaggio dolente che si mutua, poco alla volta, in un calvario, tanto per la protagonista, Anna – una superba, intensissima, straziante Noomi Rapace -, quanto per lo spettatore. Sì, perché il film di Staho colpisce duro. Solo in apparenza, infatti, Daisy Diamond si nasconde dietro le infinite rifrazioni del mezzo cinematografico. L’espediente del “cinema nel cinema” si fa, come per Abel Ferrara, un motivo per interrogarsi su di una perdita (Blackout) – una perdita che, forse, è la realtà stessa. Questa ragazza, aspirante attrice che, in un raptus di disperazione uccide la figlia di quattro mesi (i suoi pianti, continuii, sono il sottofondo ossessivo della prima mezz'ora del film), porta su di sé un peso che fa vacillare qualunque verità. Il suo passato, indefinito, si confonde tra un racconto durante un’audizione (camuffata per realtà) e una confessione, fin troppo simile al film che la ossessiona, Persona, cui Anna vede e rivede insistentemente. E così, se il suo passato non può essere definito perché minato da ogni certezza di veridicità, allora non lo sarà nemmeno il suo futuro, la sua morte - reale? cinematografica? il regista preferisce tacere.
 
http://www.youtube.com/watch?v=EtlToj_4mnw
 
Sotto le note sublimi di Antonio Vivaldi, il volto di Anna emerge dal nero dello schermo. Più inquadrature, più prospettive, ma nessuna ci permette di afferrarla, di penetrarla, di comprenderla. È lei, piuttosto, che guarda disperata verso lo schermo, verso lo spettatore. Non a caso, Daisy Diamond è un film ossessianato dallo sguardo in macchina (ancora, il cinema di Bergman è il “faro” che illumina la strada di questo giovane regista). La rottura della quarta parete, però, è pura utopia, non può avvenire. E allora l’inganno si fa viscerale, strutturale, disperato. Anna intraprende così il proprio martirio, si taglia i capelli come una nuova Giovanna d’Arco. Vende prima il proprio corpo – e le scene di prostituzione, così raggelate da togliere il fiato, ricordano da vicino il contemporaneo Ulrich Seidl - e poi la propria “storia”, fino ad annullarsi nell’immagine stessa, sparendo nel bianco accecante.

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