Regia di Michael Cuesta vedi scheda film
“La regola del complotto”, potremmo alternativamente intitolare il film interessante e pure piuttosto riuscito di Michael Cuesta, che, basandosi su una drammatica quanto vera epopea di vita realmente vissuta in pieni anni ’90, ci racconta gli sforzi compiuti dal tenace giornalista Gary Webb per portare alla luce un losco commercio di droga in cui è coinvolta addirittura la Cia; impegnata quest’ultima, nella consueta segretezza del suo agire, in una illecita quanto incredibile, inopportuna raccolta fondi volta a finanziare una guerriglia in qualche politicamente ed economicamente instabile regione remota dell’America Centrale.
Un film “alla Pakula” insomma, dove una inchiesta scottante diviene il presupposto utile e necessario per un impegno di denuncia, e si unisce ad una certa intensità del racconto, che procede, a tratti teso e concitato, fino al suo drammatico epilogo che la cronaca vera ci ha a suo tempo tragicamente documentato.
Un uomo solo, coraggioso ed impavido contro tutti. Una verità scomoda che, se rivelata, potrebbe annientare posizioni di potere apparentemente inespugnabili: è la situazione, impari ed ingiusta, sproporzionata come in uno scontro mitologico tra Davide e Golia, in cui si viene a trovare il tenace giornalista di cui sopra, che ha dalla sua solo l’appoggio caloroso e sincero, incondizionato e istintivo, della propria affettuosa famiglia, peraltro da poco tempo “riacciuffata” in seguito ad un periodo di accesa crisi coniugale che stava compromettendone la stabilità e il futuro.
Una famiglia che il regista Cuesta non si preoccupa di rappresentare in modo per nulla differente da quella abusata standardizzazione che ritroviamo inesorabilmente (troppo ) spesso al cinema in tutto il suo melodrammatico e sin un po’ convenzionale ruolo di ammortizzatore affettuoso e un po’ piagnone, nell’accezione un po’ scialba e risaputa, melensa e strappalacrime che non manca anche in tal caso di imbarazzare, almeno in parte, ma che tuttavia piace tanto all’America di sempre, dagli anni ’60 in avanti, così tanto da risultare irrinunciabile.
Per fortuna la parte del protagonista - affidata ad un concentratissimo Jeremy Renner, qui alla sua prova probabilmente migliore da tempo, dopo aver deposto (fortunatamente e speriamo per un pò) archi e frecce della Marvel, lasciato da parte le rocambolesche atmosfere e scenografie del fantasy gotico di Hansel & Gretel, nonché ibernata quella sua sporadica e non proprio indimenticabile apparizione nella saga spy dedicata a Jason Bourne – risulta la scelta più utile e azzeccata del film.
Notevole anche il cast dei comprimari, che vede coinvolti bravi caratteristi come Robert Patrick, Oliver Platt, Tim Blake Nelson, assieme a giovani eterne promesse femminili come Mary Elizabeth Winstead e Rosemarie DeWitt, volti veri di donne impavide che non necessitano di troppo trucco, smalto o cerone, mentre un divo, inesorabilmente un po’ bolso dal tempo che passa, come Andy Garcia, fa la sua piacevole figura in un contesto di pellicola dignitosa, diretta con impegno, buona volontà, e una certo inevitabile sprazzo di prudente convenzionalità.
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