Regia di Michael Cuesta vedi scheda film
"Noi sosteniamo i nostri giornalisti." (Ben Bradley, Direttore del Washington Post, da Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula)
La differenza sostanziale tra Kill the messenger e il capolavoro di Pakula è questa. Non tanto una differenza qualitativa tra le due pellicole, quanto a rimarcare l'acqua che è passata sotto i ponti dagli avvenimenti del Watergate. Il film tratta di un altro "gate", o meglio un'appendice pericolosa dell'Irangate, bubbone già scoppiato a suo tempo durante gli ultimi atti della presidenza Reagan. Il film di Cuesta si snoda attraverso due fasi ben distinte, lo sviluppo della storia con un giornalista d'inchiesta che fa il suo lavoro: ha una grossa storia per le mani, segue le tracce, trova riscontri, verifica le fonti.
La prima parte ha un ritmo veramente incalzante, un fiume di notizie che travolge il giornalista, il quale si rende subito conto del Vaso di Pandora che può scatenarsi: sbattere in faccia al pubblico anni di menzogne. Dopo la sua pubblicazione la narrazione si sposta dalla storia raccontata al chi la racconta e di come viene fatta terra bruciata intorno alla sua figura, vilipeso non solo dal governo che rientrerebbe nel gioco delle parti, ma soprattutto da coloro che dovevano sostenerlo: colleghi e redattori.
Kill the messanger quindi è il rovescio della medaglia di Tutti gli uomini del Presidente. Non un atto di accusa verso il governo degli Stati Uniti, bersaglio facile e fin troppo ovvio, ma la cronaca del decadimento del ruolo della stampa negli Stati Uniti. Da guardiano indipendente del potere ai tempi del Watergate, ad organo del potere stesso, pronto ad assecondare le tesi governative ed appiattito su un pensiero unico che mira a distruggere il singolo come in I tre giorni del Condor. Il resoconto prima dei titoli di coda non solo è una bevanda amara, oltre all'amarezza rimane un senso di inquietudine ed angoscia.
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