Regia di Dalibor Matanic vedi scheda film
Ma la solitudine non è uguale per tutti. Forse è solo ugualmente sbagliata. Segnata dalla colpa, a priori o a posteriori. L’errore può essere commesso nel momento in cui la si sceglie, convinti che quella sia l’unica soluzione praticabile, Oppure nel momento in cui, per disperazione, si cerca di uscirne, costi quel costi. Mare è una giovane donna croata, sposata con Janko, e madre del piccolo Bruno. Durante la messa della vigilia di Natale, annuncia al marito l’intenzione di lasciarlo. E subito dopo fa le valigie e se ne va, portando il figlio con sé, in casa della sorella. Ma il cognato non ci sta, e così Mare è costretta a girovagare per la città, a dormire in macchina, e, infine, a chiedere l’elemosina per mangiare. Si riduce in condizione pietose, ed anche Janko, dal canto suo, si trova ad imboccare una strada senza uscita: intraprende una relazione con un’amica, progetta un weekend sulla neve, ma tutto finirà nel peggiore dei modi, nel buio di una notte di Capodanno che aveva immaginato in maniera del tutto diversa. La miseria, morale e materiale, fa presto ad arrivare: può essere un’immediata conseguenza di un no piazzato fuori posto, oppure di un sì pronunciato a sproposito. Ma può anche essere il risultato di un processo molto più lungo, in cui l’isolamento scava lentamente nell’anima, giorno dopo giorno, un abisso in cui nemmeno ci si rende conto di precipitare. È il caso di Milan, il guardiano di un centro commerciale, che vive e lavora per conto proprio, padrone di spazi che non può condividere con nessuno. In uno di questi – il parcheggio riservato a clienti del megastore – i percorsi di Milan e Mare, una sera, si incrociano. È il punto di incontro fra due ricerche senza speranza, due vagabondaggi senza meta, due fughe che non hanno la possibilità di approdare a nulla: l’una, quella di Milan, perché non si può muovere, l’altra, quella di Mare, perché non si può fermare. La prima, perché si limita a volere fortissimamente ciò che non potrà mai avere (una donna, una famiglia, una normale vita affettiva), la seconda perché insiste ottusamente nel suo non volere, nel rifiuto rivolto a ciò che si è lasciata alle spalle, e che non riesce a sostituire con nulla di sensato (nemmeno con il ritorno dalla madre). In mezzo a loro, a metà strada fra queste due opposte forme di inconcludente radicalismo, c’è Janko, che si mette in cammino, desidera e cerca di ottenere, fa progetti e si impegna a metterli in pratica. Si muove in modo ragionato, per quanto manchi di lungimiranza, e sia dunque anch’egli condannato al fallimento. Forse crede troppo nelle lusinghe dell’amore e dell’amicizia. Si affida ad una romantica magia che non è di questo mondo. È l’incarnazione dell’idealismo puro, che esce sconfitto per troppa fede, e fa da contraltare al maldestro pragmatismo di Milan, le cui azioni sono dirette, apparentemente animate da bontà, ma in effetti disgiunte da qualsiasi valore. I tre protagonisti di questa storia, una moderna e silente avventura metropolitana, sono le schegge impazzite di un’armonia spezzata, frammentata in individualismi che non sono in grado di badare a se stessi. Mother of the Asphalt è un dramma a tre facce, che si guardano da lontano, senza riuscire a parlarsi, ognuna troppo intenta a seguire la fatale scia del proprio disorientamento.
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