Regia di Alessandro Rossetto vedi scheda film
quando luisa e bilal vanno a prendere il cugino di questo arrivato clandestino in italia e nascosto in un campo di mais nei pressi di uno spiazzo dove c'è un magazzino di mobili che svende tutto, si sentono rispondere che è venuto in italia a fare il cantante... rap. bilal sa di cosa parla quando gli chiede cosa è venuto a fare. è scettico, ma luisa guarda il suo bilal e gli dice: "se gli piace". se gli piace...... piccola patria è uno di quei film che insinuano sotto pelle un'inquietudine che fortunatamente ti abbandona quando tu abbandoni lo scuro della sala e torni nella realtà..... realtà che non si discosta molto dalla realtà filmica, poichè piccola patria non parla di fantascienza distopica o meno. piccola patria commenta una situazione di deflagrazione sempre lì-lì dall'avvenire non considerando il fatto che invece magari trattasi di implosione. il territorio va visto dall'alto altrimenti non ci si rende conto di cosa si sta parlando. perchè ha voglia il coro a cantare "guardati intorno", ma intorno è tutto piano e con la prima casa a due piani, o col primo capannone o col primo filare di pioppi o platani, la visuale è già ferma. e quindi il piano delle due ragazze luisa e renata di spillare "i schei" all'omuncolo lino(diego ribon), scapolo che vive con la sorella e con lei gestisce una lavanderia industriale, che ha il vizio di di guardare luisa e bilal scopare all'insaputa di quest'ultimo, nasce morto. la fuga delle due ragazze contro il mondo rimane una sbruffonata per passare il tempo, per far quadrare il mese per luisa e per renata una certa delusione amicale e una probabile delusione d'amore. chi lo sa. resta il fatto che quelle figure sempre più indistinte si muovono in questo territorio fatto di arterie stradali, capannoni più o meno dismessi, campi più o meno incolti e rancori xenofobi che come i propositi delle due ragazze rimangono più o meno allo stadio larvale di idea, ma che covano. covano come nella figura di franco, il padre di luisa. covano al caldo di tasse non pagate, rapporti familiari sempre più raffreddati e gitarelle in macchina coi compagni a commentare le domeniche dei negri, degli slavi o degli arabi. e tra un lunedì e l'altro le feste di paese, in cui si va a mangiare con la famiglia e gli amici sotto un tendone dove un veneto parla di ridare il veneto ai veneti. dove si impara il countri e si balla in gruppo in dancefloor improvvisati. scene raccapriccianti che mettono lo spettatore nella condizione di guardare con occhio critico qualcosa da cui si sente esentato e che viene rappresentato alla stregua di una danza orgiastica simil eyes wide shut e che invece viene solamente ripreso e riproposto paro paro come accade. guardarsi intorno per vedere però anche. che le proprie frustrazioni non sono colpa del negro, urlato contro bilal che sarà tutto meno che negro. un "negro" indistinto così sputato a mò di insulto generalizzato. albanese uguale a negro, finocchio uguale a negro. stato che richiede le tasse uguale a negro. se a volte il film risulta un pò banalotto nel suo generalizzare(più a freddo il giorno dopo che subito), lo è perchè è banale ciò che mostra. e se ciò che mostra è mostruoso nel suo covare odio, risentimento e rancore, è semplicemente così. la straordinaria banalità del male, di una pistola puntata contro il viso di una persona che chiede: "ma quello è tuo padre?.... E perchè ha una pistola?". già perchè ha una pistola?
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