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Piccola patria

Regia di Alessandro Rossetto vedi scheda film

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La recensione su Piccola patria

di ROTOTOM
4 stelle

Mostra internazionale del cinema di Venezia -  Sezione Orizzonti.

Piccola patria è uno dei film italiani presenti nella sezione Orizzonti della 70 Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. E spiace constatare che gli orizzonti, nel cinema italiano si fermano sempre sull’uscio di casa. O in un azzardato atto di coraggio, nell’aia del vicino.

Luisa (Maria Roveran) lavora in un albergo con Renata (Roberta da Soller), e ha una relazione con Bilal (Vladimir Doda) , un ragazzo albanese. Franco, padre di Luisa è xenofobo, il suo amico Menon intrattiene rapporti sessuali con Renata la quale per sfangare la miseria quotidiana, architetta un ricatto sessuale e fa ricadere la colpa su Bilal. Segue dramma di passione e gelosia. Detta così non sarebbe neppure male, un torbido noir multirazziale all’ombra dei capannoni dismessi del Veneto. Purtroppo Piccola patria si riduce ancora una volta, come tanto cinema nostrano, in un piccolo cinema di piccole idee. Un nuovo realismo italiano che sfrutta l’improvising fiction (girato in gran parte in dialetto veneto sottotitolato) come cifra stilistica per imbastire una storia locale di integrazione mancata tra indigeni e stranieri, sullo sfondo delle macerie dell’ex industrioso nord est, mentre il lato noir resta fumoso mal gestito.

La crisi, l’immigrazione, la xenofobia vengono impastate in una messa in scena  che fa del territorio  anonimo, cementificato e dismesso, la testimonianza di un glorioso passato di livellamento socio economico medio alto scandito da un tessuto sociale impostato su laboriose famiglie arroccate nel micromondo della villetta-fabbrichetta ma che per contro non ha favorito lo sviluppo intellettuale e culturale. Ed è ovvio che la formica (nel suo piccolo) si incazza quando arrivano le cicale a razzolare tra le briciole della crisi nella provincia implosa nella sua piccolezza. Rossetto regista e co sceneggiatore ,  prende le vicende di una famiglia allo sfascio per farne un esempio universale di rozzezza , umanità persa dentro i propri miseri orizzonti.

Il film alterna momenti di interesse a pause e scelte discutibili di sceneggiatura che sembrano buttate lì a fare minutaggio o per favorire un effetto shock tirato per il collo ma senza  una effettiva necessità narrativa. La messa in scena nervosa, camera mobile a carpire sfumature recitative dal flusso dell’improvvisazione dei suoi interpreti ricorda altre storie realiste, uno già visto che non brilla di originalità benché qualche faccia sia interessante, ma nulla più.

Quello che infastidisce però è la supponenza autoriale del regista, che dimostra più mostrare, in un travaso di buonismo unidirezionale sostenuto da una vergognosa retorica da salotto borghese decadente. Siamo tutti uguali, ma gli stranieri sono più uguali degli altri. Cinema auto commiserativo dalla forte   componente politica, inoculata furbescamente tra le pieghe del racconto per parlare della mancata integrazione degli italiani nel loro territorio, una volta venute a mancare le certezze sulle quali avevano impostato l’esistenza. Autoflagellazione. Mancanza di obiettività, il regista si limita a filmare una realtà esistente e la manipola a proprio piacimento facendola passare per verità. Male. Malissimo. Perché fatto con intenti non puramente artistici ma sposa un’idea politica. Gli italiani ritratti sono gli zombi ignoranti del nord est, scemi, laidi, spettinati e luridi, ipocriti quando non doppiogiochisti e criminali xenofobi. Gli stranieri sono , nonostante siano mortificati da epiteti irripetibili, socievoli, aperti, simpatici, leali, laboriosi  e onesti. Anche lo spacciatore amico di Bilal  è ritratto come una simpatica macchietta. Anche l’idioma albanese suona più civile del gorgogliante dialetto veneto.

Per presa di posizione, ottusa  e virulenta, questo film è il contraltare speculare della xenofobia che denuncia. Quella messa in scena non è una storia di finzione ritratta in un contesto reale (Gomorra; L’intervallo) nel quale i personaggi si immergono, è piuttosto una tesi ben precisa camuffata da realismo.

Risultato. Infastidisce la falsità del tutto e il regista non ha neppure il coraggio di andare fino in fondo e lascia tutto pavidamente in un incomprensibile finale sospeso dopo aver fatto tanto la voce grossa. Il ricatto sessuale è buttato lì, senza scavare nel torbido, diventa solo un pretesto per sostenere ancora di più la tesi del film.

Film visivamente discreto ma indifendibile come tema, messaggio, caratterizzazione dei personaggi  e scrittura, tronfia e dimostrativa. Spiace vedere sempre il cinema italiano confrontarsi con il proprio ombelico, senza alzare lo sguardo, mai , oltre la piccola quotidianità demente o magari farlo con l’originalità e la radicalità che può essere propria dei film di genere. Quello dell’integrazione, del realismo osceno delle nostre province è un tema stanco, sfruttato, portatore insano di  una retorica che va gestita con grande sensibilità. Non è il caso di questo film.  Se gli orizzonti del cinema italiano sono questi, stiamo freschi.

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