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Wolfschildren

Regia di Rick Ostermann vedi scheda film

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La recensione su Wolfschildren

di OGM
8 stelle

Bambini lupo. Figli del lupo. Silvestri e rapaci. Selvaggi e voraci. Eppure bambini, dediti al gioco e alla paura. È difficile non temere gli adulti, nell’estate del 1946, al confine tra la Prussia Orientale e la Lituania, nel territorio occupato dalle truppe sovietiche. I soldati dell’Armata Rossa attraversano la campagna compiendo stragi e razzie in tutte le fattorie che incontrano sul loro cammino. Per loro, sparare a vista a tutto ciò che si muove è un comune passatempo. Hans e Fritz sono fratelli. La loro madre è morta a causa di una malattia che in quelle circostanze era impossibile curare, e che la fame ha aggravato. La donna, prima di andarsene, li prega di scappare e di trovare rifugio presso una famiglia di contadini che abita al di là della frontiera. Così inizia il loro viaggio, durante il quale incroceranno altri loro coetanei,  anch’essi orfani, il cui destino sarà affidato al caso, quella imperscrutabile entità che salva uno e uccide l’altro, per una banale questione di secondi o millimetri. Il film di Rick Ostermann percorre le tappe della loro lunga peregrinazione: momenti nei quali per i piccoli si riaccende la speranza di poter ottenere aiuto, subito prima che ricompaia, con inquietante inesorabilità, il terribile spettro di una guerra mai finita. Quelle creature appaiono fragili, ma disposte a tutto per sopravvivere: a rubare un cavallo per estrarne il fegato, a cucinare delle piccole rane, a tirare il collo a una gallina, ad usare un fucile o un coltello. Il prezzo da pagare, per poter andare avanti, è mettere temporaneamente da parte i sogni, l’innocua tenerezza delle favole popolate di principesse ed animaletti, per fare propria la dura indifferenza dei grandi. Ruth soffre nel vedere le sue trecce tagliate o nel cedere la sua bambola in cambio di una scodella di zuppa: l’amore dei genitori non c’è più a proteggerla dal dolore della perdita. Lei e i suoi piccoli compagni di sventura, strada facendo, stanno imparando il sacrificio, la necessità di scegliere ciò che fa più male e sembra sbagliato. Tuttavia, tra una rinuncia e l’altra, riesplode, puntuale, la gioia di stare al mondo, di scoprire ignote bellezze (un cespuglio pieno di mirtilli, un lago in cui tuffarsi e nuotare), di divertirsi con la semplice emozione della sorpresa. La voglia di distrarsi e non pensare finisce sempre per avere il sopravvento, nelle pause di tranquillità in cui ci si può permettere di lasciarsi andare, senza dover stare in guardia dai pericoli, nascondersi o correre via. L’incanto naturalistico dei luoghi – sul quale la fotografia di Leah Striker ama indugiare  - riesce a non farsi violare dal risvolto rozzo della primitività, fatto di brutalità e ingordigia. Conserva il suo fascino incontaminato, pronto ad accogliere le espressioni fresche e spontanee dell’innocenza. Quello scenario agreste, baciato dal sole e chiazzato di terrore, diventa così lo sfondo di una fiaba dal volto graffiato e sporco di fango: un mito infantile con gli abiti lacerati dalla violenza di una Storia che dà il peggio di sé all’ombra degli alberi, dove i riflettori della civiltà non arrivano a proiettare i loro lampi severi.

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