Regia di Agnès B. vedi scheda film
Per la piccola Céline, di soli undici anni, il mostro è in casa. È il padre Daniel, disoccupato, che abusa regolarmente di lei mentre la moglie è al lavoro. Toccherà, per contro, ad uomo di passaggio, un autotrasportatore inglese incontrato per caso durante una gita scolastica, l’improbabile compito di riscattare, ai suoi occhi, la figura del maschio adulto. Lui e la bambina, all’insaputa di tutti, proseguiranno insieme il viaggio attraverso la Francia. L’estraneo di cui bisogna diffidare, e a cui è vietato persino rivolgere la parola, si rivelerà invece rispettoso, protettivo, servizievole. Agnès B., classe 1941, che di cognome fa Troublé (turbato) ed è una nota redattrice e creatrice di moda, costruisce il suo film d’esordio intorno a questo paradosso, decisamente atipico, per quanto poco originale, ma di per sé non tanto forzato quanto la maniera in cui esso viene sviluppato sul piano formale, psicologico e narrativo. Lo stile della neoregista e neosceneggiatrice si avventura nello sperimentalismo quel tanto che basta a sfiorare la suggestione del fantasy: un vezzo estetico che, pur limitandosi a fare timidamente capolino nei tempi morti del racconto, mal si amalgama con la durezza dell’argomento. La vicenda avrebbe meritato sottolineature ben diverse, più coerenti con l’immagine del costante sogno/incubo che, per la bambina, si è sostituito alla diretta percezione del mondo. Purtroppo quelle tenui spennellature oniriche, distribuite senza criterio, diventano soltanto il sintomo più superficiale di una fondamentale incapacità a gestire il linguaggio dell’alienazione. Veramente straniante è solo – involontariamente – il modo innaturale con cui i genitori reagiscono all’annuncio della scomparsa della figlia, ed illogico risulta anche il comportamento del camionista, che, pur sembrando un individuo lucido, ed essendo a sua volta un padre di famiglia, sceglie di tenere con sé la piccola senza porsi problemi di sorta. Questo road movie, che forse ambirebbe ad ammantarsi dei soffusi colori della favola appena intravista, non riesce purtroppo a scrollarsi di dosso la patina dell’inverosimiglianza, la quale, per di più, non appare supportata da un’adeguata dose di inventiva. Il testo avvolge l’aspetto crudo della faccenda in un alone che vorrebbe essere trasognato, ed invece sembra solo stanco e svogliato; il film è poco propenso a guardare in faccia la realtà, e più incline a dimenticarne i risvolti più critici, che alimentano punte melodrammatiche senza mai stimolare la riflessione. Di questo Je m’appelle Hmmm… ci rimarrà impressa soltanto una vaga suggestione surreale, come di un orrore che cerchi di sottrarsi all’evidenza, illudendoci che anche il male più aberrante possa magicamente finire, risparmiando la vittima designata, dopo aver trovato uno sfogo alternativo. Un epilogo ingannevole, per nulla consolatorio, e forse sostanzialmente inutile.
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