Regia di Kitty Green vedi scheda film
Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia del 2013 e opera d’esordio della regista australiana Kitty Green, è un documentario che prova ad indagare su un fenomeno reale, quello che riguarda il collettivo delle Femen e sulla particolare modalità che ha scelto per le sue contestazioni pubbliche a seno nudo.
Nato per denunciare e contrastare il turismo sessuale in un paese definito post-comunista (anche se gli avvenimenti dell’ultimo periodo dovrebbero consigliare che è sempre opportuno essere più prudenti nel creare definizioni di questo tipo) è un gruppo che ha utilizzato proprio il seno nudo delle sue adepte come un vero e proprio cartello di protesta.
“L’Ucraina non è un bordello” è lo slogan che gridavano le ragazze nelle loro prime manifestazioni pubbliche, puntualmente ripreso dalla Green (che ha vissuto ben 14 mesi dentro il collettivo, filmandone la vita quotidiana e le sue azioni spesso violentemente contrastate dalle autorità) per dare un titolo al proprio documentario e far comprendere subito di cosa sta parlando.
Come ben sappiamo, le Femen non si sono fermate solo all’Ucraina, ma hanno compiuto interventi disturbatori in vari paesi (Italia compresa con le loro contestazioni contro Berlusconi) suscitando ovunque ampie discussioni dibattimentali sulla liceità dell’uso del topless per una manifestazione di carattere politico, e sul sottile confine – quasi nullo – fra provocazione e voyeurismo (quello che appunto possono suscitare i corpi “nature” così generosamente esposti da queste giovani e belle attiviste militanti).
La Green dunque prova a indagare proprio su questo labile distinguo, e nell’osservare con la sua cinepresa le ragazze del collettivo mette in evidenza molte contraddizioni fissate ne sonoro delle sue puntuali interviste dove, tanto per fare un esempio, una di loro confessa di non trovare nulla di male (e soprattutto niente di strano) nell’esibirsi come ballerina di lap dance.
Alla fine, quando la convivenza giornaliera ha fatto superare ogni reticenza, quasi tutte ammettono che dietro ogni performance c’è un casting vero e proprio e che il regista e deux ex machina del movimento, è un uomo (il che ridimensiona non poco il senso delle loro proteste) anche se si affrettano a dire subito dopo, che sperano che lui sia l’ultimo patriarca di quel mondo maschile che loro stesse vogliono distruggere.
Gli schemi del femminismo tradizionale, fra antichi retaggi culturali difficilmente cancellabili e desiderio di rivalsa che si confondono fra loro, sono dunque scalfiti, ma non del tutto rigenerati in qualcosa di ben definito e nuovo, visto che poi (al momento) è proprio la figura maschile a tirare le fila di questo collettivo che registra comunque in qualche modo la salutare ripresa di un nuovo attivismo femminile che – comunque la si pensi al riguardo – ha sicuramente dimostrato di conoscere già molto bene le regole della comunicazione e di saperle utilizzare al meglio.
Interessante insomma e meritevole d’attenzione, ma non del tutto risolto.
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