Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Il film è costituito da un'unico piano sequenza di un'ora e undici minuti, operazione resa possibile solo dalle riprese in digitale. Nei titoli la voce "montaggio" semplicemente non compare. Lo stile è semidocumentaristico, con dialoghi che sono delle quasi-interviste,
e personaggi che sembrano persone vere che raccontano della propria vita.
Dal punto di vista tematico, il regista scava nel passato e nel presente, e nei rapporti tra loro, di israeliani e palestinesi. Il messaggio del film è un incoraggiamento alla pacifica convivenza tra le due etnie, come del resto accadeva prima della II Guerra Mondiale. Il regista indaga su come si convivesse prima, e su come non si riesca a convivere adesso, con tutti gli strasichi di odio e di tragedie personali che il conflitto ha generato. La posizione dell'israeliano Gitai su questo spinoso tema mi sembra equilibrata, e umana più che politica: perché cioè farsi la guerra all'ultimo sangue, quando si potrebbe andare d'accordo con un po' di buona volontà?
Le storie raccontate sono interessanti e illuminanti, quindi il film è sicuramente utile per capire la realtà di due popoli e di due tragedie. Per il resto, non posso fare a meno di chiedermi: a che pro tanto sforzo per questo lunghissimo piano sequenza, sotto la cui cappa il ritmo e la scorrevolezza dell'insieme a tratti languono un po'? La prova di Gitai è cioè difficilissima, e quella degli attori pure; mi chiedo però se non si poteva ottenere qualcosina di più con un tradizionale montaggio e qualche stacco per liberarsi di alcuni raccordi consistenti.
Si guarda, comunque, con un occhio che va ogni tanto all'orologio, ma si guarda.
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