Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Hanna Klibanov. Ovvero Siam Abbas. Ovvero Ana Arabia. «Io, araba». Sono i tre nomi che racchiudono in sé le sorti di un’unica donna, ebrea d’origine polacca, sopravvissuta alla Shoah, fuggita dalla famiglia per sposare un uomo palestinese in Israele, convertendosi all’Islam. È la sua storia, quella che Yael, giornalista israeliana, vuole raccontare. La cerca in una piccola corte, al confine fra Jaffa e Bat Yam, dove vive chi l’ha amata, chi l’ha conosciuta. Arabi ed ebrei, insieme. Gitai segue la sua protagonista, in un unico, lungo pianosequenza, la guarda camminare lentamente tra i vicoli stretti, alla luce del mattino, chiedere di Ana, ascoltare tutte le risposte, anche le digressioni d’ogni giorno, anche i frammenti di storia del Medio Oriente accumulati nella memoria della gente, nel misero cortile. Poi, mentre se ne va, incontra un albero incoerentemente in fiore, una lacrima le scende sul viso, la camera s’eleva e abbraccia con lo sguardo quel che per 81 minuti ha tenuto - esteticamente, eticamente, politicamente - insieme. Documentarismo etnografico su coreografia fiction, architettura cinematografica e apertura all’imprevisto nella durata del tempo, elegia della tradizione orale e uomini che non recitano, ma citano se stessi, le proprie storie, nel segno di Brecht, nel segno di Straub. Gitai s’inventa un dispositivo fuor d’ogni retorica, nudo sino al didascalismo, per raccontare la storia di una donna, di un film, di un mito possibile, che sa unire due mondi. Di un nitore morale accecante.
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