Regia di Steven Knight vedi scheda film
Locke è solo la seconda regia per Steven Knight, dopo il comunque solido esordio di Redemption – Identità nascoste girato nello stesso anno, una prova con il botto, volendo ben vedere meno sorprendente di quanto si possa credere. Infatti, verte prima di tutto su un congegno narrativo ad orologeria, nel quale svetta l’abilità dell’autore come sceneggiatore, già appurato per lavori interessanti (Piccoli affari sporchi), talora addirittura splendidi (La promessa dell’assassino), senza trascurare la serialità (Peaky blinders).
Attestata la validità dell’autore, avere in scena un cuore pulsante come Tom Hardy è determinante, essendo l’attore inglese uno dei pochi in grado di reggere un intero film sulle sue spalle. In questo caso, è letteralmente così, essendo l’unico interprete fisicamente presente.
Ivan Locke (Tom Hardy) è partito da zero, costruendosi una rigogliosa famiglia e un posto di lavoro importante nelle costruzioni, per il quale tutti pendono dalle sue labbra. Improvvisamente, in poche ore racchiuse in una notte, dovrà prendere delle decisioni fondamentali, che potrebbero cambiare ogni cosa, sia nella vita familiare, sia nel lavoro.
Prima di ogni convenienza personale occorre fare la cosa giusta.
Una macchina, un telefono rovente e il volto nervoso, combattuto e segnato di Tom Hardy. Dirigere un film scegliendo un’unica unità di luogo è una scelta coraggiosa, farlo con un solo personaggio in scena è un’autentica sfida.
Steven Knight la vince sul campo, sfruttando la comunicazione, l’inclinazione delle voci degli interlocutori e i gesti più elementari del suo protagonista, sempre conformi alle affermazioni, provenienti dal cervello così come dal cuore. Dentro Locke s’insediano le contraddizioni della vita, quando un singolo errore, anche se sarebbe meglio chiamarla leggerezza, un paradosso nel modo di comportarsi di Ivan, si riverbera facendo crollare ogni cosa, come se tutto quanto costruito in anni di duro lavoro e sincero amore fosse nient’altro che un semplice castello di sabbia, costruito troppo vicino alla riva del mare.
Il nastro si riavvolge e il film si snoda tra ricordi, alcuni troppo duri perché possano essere accantonati nel nome del quieto vivere, legami affettivi consolidati e lavoro, con gioie e dolori, speranze e delusioni a sovrapporsi.
L’intreccio è tenuto insieme da un testo millimetrico, che riesce a far immaginare i volti coinvolti nelle telefonate e le esperienze raccontate, senza far sentire il bisogno di ulteriori immagini, grazie anche all’armonizzazione offerta da un fine lavoro di montaggio che, su trenta ore di girato su più nottate, come in una rappresentazione teatrale nella quale viene ripetuto tutto dall’inizio alla fine, ha scelto i singoli pezzi migliori.
In ogni caso, se la trama è cotta a puntino e i tempi di elaborazione hanno un respiro inequivocabilmente selezionato, senza la presenza di Tom Hardy avremmo avuto un altro film. Per l’attore di Hammersmith questa prova è la conferma di un talento cristallino, una maturità che non si trova voltando l’angolo, con una capacità rara di coprire ampi archi emotivi.
Aggiungendo i riflessi degli esterni che scorrono come a indicare quanto si sta lasciando alle spalle, contrappunti essenziali, come il bivio stradale che diviene allegoria delle scelte esistenziali, sogni che vanno in frantumi e pianti liberatori, Locke non sbaglia nemmeno quando si tratta di attraccare, certificando quanto sia importante prendere la decisione giusta, pur essendo consci di cosa comporti l’assunzione di responsabilità.
Prelibato.
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