Regia di Steven Knight vedi scheda film
"Che cazzo hai da guardare? Ridi, vero? Ridi della mia difficoltà. Secondo te è una tara di famiglia, non è vero papà? [...] Se potessi, ora prenderei una cazzo di pala per tirarti fuori da quel buco sotto terra e mostrarti che cosa sto facendo. [...] Perché sono io che guido. Io, non tu; e a differenza tua io andrò dritto nel posto in cui dovrei essere e rimarrò lì per occuparmi del mio errore."
Una macchina da presa e uno spazio limitato. Steven Knight prende il cinema e lo racchiude all'interno dell'abitacolo di un'automobile.
È un'esperienza claustrofobica questo Locke, secondo lungometraggio diretto dal noto sceneggiatore di Eastern Promises di David Cronenberg.
Sono 85 minuti, solo ottantacinque minuti. Eppure, dentro quella BMW, in così poco tempo, la razionalità si trasforma in irrazionalità e la vita Ivan Locke prende una piega che nessuno (neppure il suo capo cantiere) avrebbe mai potuto immaginare.
Circoscrivendo l'esperienza cinematografica ad una serie di inquadrature che sfumano nell'indefinito, Steven Knight da vita ad dramma ricco di tensione che mira all'esplorazione psicologica di un protagonista sull'orlo del baratro.
"Locke è irremovibile, e anche se sa che così si allontanerà da se stesso, da quella che è stata la sua vita fino a quel momento, nella sua mente è la cosa giusta da fare. Lo spettatore è con lui tutto il tempo, ma non può in nessun modo condizionare la sua scelta."
(Steven Knight)
Ivan Locke ha preso la sua decisione. Si è convinto ad abbandonare, senza particolare preavviso, il cantiere di calcestruzzo dove lavora (all'alba della più importante colata di calcestruzzo di tutta l'Europa) per intraprendere un viaggio. Viaggio che, in un'ora e mezza (guarda caso, la durata della pellicola) lo porterà a Londra e, più precisamente, all'ospedale dove Bethan, una donna conosciuta per caso l'anno precedente, sta per dare alla luce un bambino, simbolo dell'unico tradimento del protagonista ai danni della moglie Katrina.
Ivan è pignolo e ordinato. Ha portato avanti con grande razionalità l'attività lavorativa e l'impegno famigliare, riuscendo a gestire (si potrebbe dire nei minimi dettagli) ogni istante della sua vita, fino ad ora. Da questo punto di vista, si trova in perfetta antitesi con la figura del padre che, a differenza sua, ha condotto una vita all'insegna dell'irrazionalità e della completa noncuranza dei propri errori.
Ma è proprio da quel piccolo e unico errore che la pellicola prende la sua forma. Locke decide di reagire per andare incontro al suo destino, al suo sbaglio. Vuole dimostrare, una volta per tutte, di essere una persona capace di fare i conti con i propri fantasmi, per evitare di rimanere inevitabilmente sopraffatto da essi.
Ivan, dall'abitacolo della sua automobile, tiene in pugno la sua vita gestendo le innumerevoli telefonate: Katrina, Bethan, il collega Dolan e altre ancora. Si fida del suo istinto e si convince che tutto andrà per il meglio. Le conseguenze, però, si mostreranno ben più complesse.
Steven Knight, attraverso i numerosi dialoghi, ci racconta le diverse relazioni e si impegna a dipingere il carattere e la psicologia del suo protagonista sempre in bilico tra la lucidità più razionale e la pulsione più irrazionale. Il telefono, afferma lo stesso regista, "trasforma il tempo trascorso nell’abitacolo di una macchina da solo in una prova di recitazione. A ogni telefonata sei costretto a interpretare un ruolo che ti definisce: marito, padre, amante, impiegato, datore di lavoro. Ti relazioni con chi è dall’altra parte del telefono, e quella relazione ti definisce il tempo della telefonata."
Locke mostra tutta la sua forza nel crescendo degli stimoli, nel voler portare il suo protagonista sull'orlo di una vera e propria autodistruzione. Le telefonate aumentano e la situazione sembra prendere una brutta piega: da un lato, la "più importante colata di tutta l'Europa" presenta numerose problematiche, e dall'altro Ivan è costretto a fare i conti con una moglie furiosa e scovolta. "La differenza tra 'mai' e 'una sola volta' è abissale. La differenza tra 'mai' e 'una sola volta' è la differenza tra il bene e il male" affermerà, scioccata, Katrina.
Si rimane sì in bilico fino alla fine, fra lucidità e confusione, immersi tra le pulsioni frenati che, però, riusciranno a portare il protagonista a destinazione. La pellicola arriva così alla sua conclusione, e lo sguardo del regista si allontana definitivamente dalla macchina per mostrare, dall'alto della mdp, le strade illuminate della periferia londinese.
Steven Knight, in alcuni momenti, si fa prendere un po' troppo la mano, dando vita a situazioni poco convicenti e poco credibili (scappa la risatina sul "lo voglio per il calcestruzzo") e alla fine tutto rimane un po' sospeso, un po' fragile, lasciando nello spettatore la sensazione di aver assistito ad una sorta di esperimento che, con qualche guizzo in più, avrebbe potuto fare un notevole salto di qualità. Ma non dobbiamo assolutamente considerarci delusi: Locke funziona. Eccome se funziona.
"Volevo esplorare l'utilizzo della cinepresa digitale, di notte, nel traffico, creare una sorta di installazione artistica in movimento, che scorre ipnotica sullo sfondo, mentre in primo piano viene mostrato in tempo reale il viaggio letterale e metaforico di un uomo ordinario la cui vita sta cadendo in mille pezzi come effetto di un unico errore compiuto. Il punto è che non sapevamo se era possibile fare un film interessante dove l'unica azione è quella di un uomo che guida: solo facendolo avremmo potuto avere la risposta, e adesso, dopo aver visto la reazione del pubblico, sappiamo che poteva funzionare."
(Steven Knight)
Come una sorta di "installazione artistica in movimento", Locke costringe lo spettatore ad osservare, ripetutamente e da diverse angolazioni, lo stesso soggetto. Cambiano le inquadrature, ma la storia è sempre la stessa: Tom Hardy e il volante della sua automobile. Una costrizione che, però, aiuta a mantenere lo sguardo fisso sul protagonista e sulla sua vicenda. Nessun altro tipo di distrazione. Tutto si sviluppa all'interno di quell'abitacolo, e il resto (l'esterno) non conta.
Lo scorrere delle luci colloca l'inquadratura nello spazio e nel tempo, e le sovraimpressioni non svolgono altra funzione se non quella di far percepire al pubblico la confusione e lo smarrimento che annebbiano la mente di Ivan.
Come non menzionare, a questo punto, l'ottima prova di Tom Hardy, che riesce a convincere nella difficile interpretazione di un personaggio dalla psicologia sovrabbondante e che, oltretutto, ha il compito di tenere in piedi la pellicola per tutta la sua durata.
Locke finisce come era iniziato, con una panoramica che dall'alto ci mostra l'esterno, ciò che sta fuori. Prima la sera, adesso la notte. Ivan è arrivato a destinazione e ha dato così un senso alla sua scelta. Sbaglieremmo, però, nell'affermare che tutto è tornato al punto di origine. Molte cose, infatti, sono cambiate.
Steven Knight, portando a conclusione il suo viaggio, è riuscito a fare centro. Ha ipnotizzato l'occhio dello spettatore con una serie di inquadratura che hanno provano a negare, paradossalmente, uno dei principi chiave del cinema: l'esplorazione dello spazio. Avremmo forse potuto chiedere qualcosa in più perché, dopotutto, non siamo di fronte ad una pellicola sbalorditiva. Ma poco importa.
Locke ha comunque fatto centro.
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