Regia di Steven Knight vedi scheda film
In una lunga notte, le odierne stelle metropolitane (i fari dei lampioni) illuminano Ivan Locke, seduto al volante della sua bella BMW. Ne illuminano la risolutezza e l’angoscia. L’ansia ed il carattere, mentre sceglie di fare la cosa giusta… andando incontro al baratro.
Un disastro annunciato, in quella notte di passione e di redenzione; di assunzione di responsabilità; di discernimento sulla reale importanza delle cose… e delle persone.
Tutto in una notte, anzi meno; in meno di un’ora e mezza.
Il traffico (d’altronde) è scorrevole.
Una notte trascorsa a descrivere sè stessi. A descrivere chi non siamo.
Quali errori abbiamo fatto. E quali abbiamo ancora il potere di evitare.
Perché fra uno (un errore) e niente non ci passa un’immensità. Non ci passa quasi nulla…. A volte. Ma la vita è sempre una questione di prospettive.
T. Hardy racconta il suo personaggio con mestiere, senza (a mio avviso) eccellere (alterna momenti di grande espressività ad altri caratterizzati da una freddezza emotiva anormale, date le circostanze).
Un uomo - Ivan Locke - incredibilmente pragmatico che sa tenere i nervi saldi pur nel mare in tempesta in cui si trova la sua barca. Che sa bene (lo ha imparato sulla sua pelle) qual è il verso della direzione da prendere. Che tiene dritta la barra del timone. E la vettura non sbanda. Le difficoltà più gravose scivolano via come corpuscoli irrilevanti rispetto all’enormità della vita che si rinnova. Una vita appesa ad un cordone ombelicale dispettoso, che prima ti nutre, poi ti strozza.
Ma non sempre.
Steven Knight scrive una sceneggiatura brillante… ma forse troppo; costruita ad arte allo scopo di sovraccaricare il protagonista di tensioni ed affanni. Allo scopo di estorcergli la parola mite e catartica. Quella che lo libererà dalle suo colpe. Quella che lo condurrà a compiere la scelta giusta, costi quel che costi. Quella che potrebbe indurci a perdonare Locke, anzi; ad amarlo: per la sua straordinaria generosità; per un’umanità impastata di realismo e commozione. Per il suo gran cuore.
Peccato veniale, a ben vedere. Il film è indubbiamente pregevole. Con pochissimi mezzi ostenta limpidamente il suo obiettivo e lo irrobustisce ogni minuto che passa; chilometro dopo chilometro.
Va dritto al cuore del problema e, dall’essenziale, sfronda le sovrastrutture sociali ed il superfluo.
Tutto ciò che potrà pure permettersi di attendere qualche ora per avere uno straccio di spiegazione.
L’unica seria nota dolente, purtroppo, stavolta è proprio il (mio adorato) doppiaggio. La voce di Fabrizio Pucci è semplicemente inadatta. Appartiene a qualcun altro, non a Ivan Locke/T.Hardy. Inoltre, (solo) per questa volta, sarebbe stata fondamentale la presa diretta anziché il doppiaggio sulla colonna dialogo. Lo scollamento fra la voce ed il personaggio si fa quasi, tragicamente, surreale.
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