Regia di Steven Knight vedi scheda film
Unità di luogo e tempo. Una vita compressa nell’abitacolo di un’auto e un uomo solo in scena. Una sola macchina da presa. La notte e il viaggio. Il cinema in tempo reale di Locke è un piccolo gioiello di scrittura che sottrae allo spettatore lo sguardo delle vicende per imporre uno sguardo di parte, quello del protagonista che subisce l’incedere degli eventi nel breve volgere di novanta minuti. Eventi che distruggeranno la sua vita.
Regista e sceneggiatore è Steven Knight, già autore per David Cronenberg di La promessa dell’assassino, il cui Locke presentato Fuori Concorso alla 70° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è stato accolto con un favore unanime, come unanime è stato lo stupore per la scelta da parte dei selezionatori di non inserirlo nella sezione principale, dove sarebbe sicuramente andato a caccia di premi.
Ivan Locke, un superbo Tom Hardy, è un capomastro. Il più bravo e affidabile nella sua specializzazione. Un uomo con un lavoro, una famiglia, un ruolo. Un uomo che si eleva a metafora di quel materiale che quotidianamente plasma, il calcestruzzo, sul quale erige la propria identità. In inglese concrete sta infatti per “calcestruzzo” ma anche “concreto” e per estensione “positivo”, “reale”. Locke è concreto e razionale, abituato a trovare soluzioni per i problemi. A non fare errori. Abituato ad essere positivo.
Durante l’ora e mezza di ritorno in macchina, dal cantiere a Londra (il tempo della storia coincide con il tempo del film), va però in scena la disgregazione di tutto ciò in cui crede e sulle cui fondamenta ha posato le pietre della propria vita. L’uomo integro ha fatto un errore. Una crepa in quella fortificazione si sta allargando rapidamente e mina tutta la struttura della sua esistenza. Egli sta andando a dimostrare – a se stesso - la concretezza della propria integrità a dispetto delle facili soluzioni che potrebbe adottare per togliersi d’impaccio. Ha messo incita una donna che sta per avere il figlio proprio nella sera in cui sta per posare la più grande quantità di calcestruzzo mai effettuata in Europa (cosa che gli viene ricordata più di una volta dal suo capo), proprio mentre la sua famiglia, ignara, si è riunita attorno alla Tv e lo attende per il sacro rito della partita di calcio più importante della stagione.
Un triangolo amante-famiglia-lavoro è una forma rigida che non si piega, magari però si spezza.
Locke è l’epica dell’uomo solo contro tutti in un mondo soverchiante che non accetta più di“stare chiuso fuori con il suo casino” e che filtra osmotico attraverso i finestrini dell’auto. Un uomo chiuso nel proprio micro-mondo fatto di voci e tecnologia la cui immagine è moltiplicata e frammentata dalle superfici riflettenti dell’abitacolo dell’auto, scomposta in rilessi sugli specchi, mutilata dalle inquadrature come un ritratto in frantumi. Un’identità che deve ricomporsi secondo nuove regole. Le voci arrivano in vivavoce in un serrato scambio telefonico tra Ivan Locke, la moglie, i figli, il collega di lavoro, il proprio capo, la ragazza che sta per dargli un figlio. Un padre assente che riverbera nella mente una voce riflessa dal vuoto. Voci fantasma provenienti da un altro mondo ipotetico, invisibile, attraverso le quali il mondo di Locke viene disegnato nell’aria per poi scomparire, soffiato via. Le poche inquadrature dall’alto dell’arteria autostradale notturna, inoculano il sospetto che le tragedie siano ficcate in ogni auto come un virus, cellule che si dibattono contro la disgregazione in una lotta dove ognuna è sola contro il nulla.
L’aspetto interessante è proprio il delegare allo spettatore la creazione, secondo le esperienze private e intime sensibilità, di un mondo che si conformi alle voci che arrivano al protagonista. Ognuno quindi decodifica il dramma in un crescendo empatico che genera tensione elevando la tragedia privata ad una condizione universale di solitudine e isolamento.
La tecnologia ha un ruolo importante nel film. L’auto-status, la BMW ovattata e filante. E quella che con una manopola gestisce le voci di nomi, vite, emozioni dei contatti sul display. O la loro assenza. Locke gestisce tutto in maniera molto sicura, perfettamente adattato al proprio mondo, solidamente rappreso intorno alle proprie certezze.
Sicuro di farcela ma altrettanto in balia di un destino che non può (più) controllare, Ivan Locke è concrete fino all’estrema conseguenza. Quando si perde tutto, l’integrità è l’unica cosa che resta.
Un film che potrebbe essere tranquillamente un pezzo di teatro piuttosto che un radiodramma per come le voci e i dialoghi calibratissimi, riescono a creare un mondo visivamente tangibile. Ma nulla viene tolto alle immagini, potenti e sempre dirette a provocare una genuina emotività. Nonostante la claustrofobica location del film, quello di Knight è un cinema dinamico e serrato nella narrazione. Il regista moltiplica gli spazi dell’interno dell’auto, li espande come polmoni in apnea in attesa di riprendere aria mentre la mobilità della macchina da presa all’interno dell’abitacolo esalta l’alternanza di primi piani e particolari fusi in un montaggio fatto di stacchi repentini e alternati a dissolvenze nelle quali il tempo si perde, il volto dell’uomo si scompone e si smaterializza tra le luci delle autostrade.
Nonostante le resistenze l’uomo è destinato a cambiare, la trasformazione - tanto cara Cronenberg - qui è sottile. Come ne La promessa dell’assassino, Stephen Knight mette i personaggi alla prova nel confronto con le loro identità lasciandoli liberi di effettuare la scelta che li identifichi. Una scelta imposta da un destino che incrina ogni baluardo eretto in nome dell’immutabilità dell’esistenza. Se queste sensazioni passano fluidamente dallo schermo allo spettatore gran parte del merito è di Tom Hardy attore inglese dal fisico possente (ricordiamo il Bronson di Nicolas Winding Refn o la parte di Bane ne Il cavaliere oscuro – il ritorno di Christopher Nolan) ma capace di scavare nella psicologia del personaggio per sottrazione in una prova di grande intensità emotiva. Ogni sfumatura dell’espressione del viso è affilata, accennata e dolorosa. Ogni sguardo suggerito e ogni fremito controllato.
Locke è il lucido viaggio al termine della notte dell’uomo contemporaneo alla deriva, asciutto e tagliente quanto doloroso ma trattenuto sull’equilibrio della speranza da un finale sospeso che spazza via ogni tentazione di virare verso il nichilismo gratuito.
Unico appunto: il doppiaggio ogni tanto accusa note false. Locke andrebbe visto – udito – in lingua originale. Per completezza, più che altro.
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