Regia di Alexandros Avranas vedi scheda film
«Il dio greco della violenza» (“il Fatto Quotidiano”): è l’espressione che più ha soddisfatto Alexandros Avranas nella trasferta veneziana che gli ha procurato un Leone d’argento e la Coppa Volpi. Sigilla un film che si apre con la piccola Angelica che si butta giù dal balcone, il giorno del suo undicesimo compleanno, di fronte alla famiglia. La figlia maggiore, che ha due bimbi senza padre, è sotto psicofarmaci; quella più giovane, come la mamma, vive segregata; il capofamiglia, lo strepitoso Themis Panou, abita ogni angolo della casa con uno sguardo o un cenno: indaffarato nel procurare cibo, assolvere faccende, impartire istruzioni. E perché in quella casa non si possono aprire porte, frequentare amici, scambiarsi confidenze? La tv parla in tedesco (è ispirato a un fatto di cronaca accaduto in Germania e inoltre, come ha detto il regista, «prima o poi la Germania ci imporrà pure questo»). Lo stato sociale è tanto efficiente quanto cieco e una delle scene più inquietanti ha in sottofondo L’italiano di Cutugno («la canzone preferita da quelli che avrebbero rovinato la Grecia»). Ma è la coreografia di rituali, serrature, sguardi congelati e silenzi assordanti a parlarci di un autore che sembra conoscere bene Haneke e Fassbinder (forse anche Petrolio di Pasolini), insieme alla perfezione del movimento del film che rovescia sullo spettatore l’orrore del suo segreto nella mezz’ora finale, dopo aver alimentato con la reticenza il suo minaccioso mistero. Forse è l’opera più sconvolgente dell’anno.
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