Regia di Gianfranco Rosi vedi scheda film
Marginalità. Una parola dolorosa, eppure così leggera. Intorno al Grande Raccordo Anulare il tempo è quasi fermo; tante piccole storie fremono appena di una tenera ansia vitale, primitiva e misteriosa, e quindi magica, in un senso umanissimo e sfuggente. Fuori dalla città, lungo le scie del traffico veloce, il mondo appare avvolto da una cappa di nebbiosa rarefazione, che reagisce all’anonimato del caos trattenendo elegantemente il respiro. Gli ultimi si distinguono per questo gesto di aristocratico distacco, che li tiene al riparo dal nonsenso della massa, dentro un’elitaria sospensione dei significati comuni. Confortare nel male inscenando il bene. Sfidare la morte con la forza della memoria. Fare di sé uno spettacolo per pochi. Spiare le esistenze altrui per scoprire sogni impensati. Nel teatro delle vite estreme, lo sguardo deve entrare con rispettosa curiosità, per farsi, nel contempo, discreto e penetrante, limpido e dubbioso. L’obiettivo di Gianfranco Rosi mette a fuoco la volontà di vedere, stemperata dall’impossibilità di capire l’apparente felicità degli sciagurati, e la tristezza dilagante, a cui tutti sembrano intimamente affezionati. La gente attraversa il nulla chiacchierando, ballando, ridendo, facendo festa. Il disfacimento è solenne e a volte perfino gioioso, nel circo grottesco in cui le prostitute sfilano insieme ai necrofori, nel transito da un oggi che è il tramonto di ieri ad un domani che è solo la notte in arrivo. Il pescatore di anguille vede un futuro fatto di pesci in estinzione. Il vecchio padre di una figlia solitaria parla di luci spente, di odore di muffa, di montagne di letame. Il cacciatore di punteruoli rossi è un alchimista che spiega la filosofia dei parassiti. Le immagini fisse hanno la profondità della nostalgia, del ricordo senza fine, del presagio incolore di un’apocalisse imminente. Nella sua casa museo, un cavaliere di Malta compie ricerche genealogiche. Intanto, nel salone della villa, una troupe realizza un fotoromanzo. Nelle istantanee dell’invisibilità, i dettagli sono timidamente straordinari. Come i bisbigli d’amore rivolti da un figlio all’anziana madre. O il ritmo di un massaggio cardiaco, la sommessa preghiera del risveglio. O il suono di una larva che scava nell’anima di una palma. Dove il paesaggio è spoglio, il cuore pulsa a cielo aperto. Forse è il suo battito a dirigere quel folle girotondo, nel quale persino il sole può trasformarsi in un’allucinazione collettiva. Probabilmente, sentirsi indifesi alimenta quella strana vocazione all’impossibile, che spinge tutti ad immaginare voli miracolosi verso la santità, l’aldilà, l’onnipotenza. Un viado agita le braccia come fossero le ali di un angelo. Una donna chiede di raggiungere il marito defunto. Un uomo ferito in un incidente pensa di tornare subito al lavoro. La levità è una fede terrena, che innalza il corpo verso le nuvole di una giornata di pioggia: entità grigie, eppure eteree e soffici. È il sacro di una realtà di passaggio, che lascia i viandanti indifferenti, mentre, al bordo di una strada, interpreta la sua assurda e semplicissima verità.
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