Regia di Gianfranco Rosi vedi scheda film
Il Raccordo «circonda Roma come un anello di Saturno», dice una scritta all’inizio di Sacro GRA: è una striscia di asfalto, una parola nel notiziario stradale, un non-luogo, ovviamente, che nemmeno si vive ma di norma si attraversa in automobile. Ispirato da un’idea del compianto Renato Nicolini, consigliato dall’urbanista Nicolò Bassetti, Gianfranco Rosi ha scelto di viverlo, l’anello di Saturno, e di raccontare le persone che lo abitano. E dopo un anno e mezzo di ambientamento, uno di riprese e sette mesi di montaggio, ha realizzato un film dove lo spazio geografico e sociale scompare per lasciare il posto ai volti e alle storie di un mondo finora invisibile o mai visto. In Sacro GRA ci sono un nobile piemontese e la figlia laureanda stipati in un appartamento minuscolo; un botanico in guerra contro l’insetto che si ciba delle palme di un’oasi; un principe che affitta la sua villa pacchiana; un anziano attore di fotoromanzi; un anguillaro che pesca nel Tevere; un barelliere del 118… Nel suo lungo percorso conoscitivo, Rosi ha percorso e filmato la periferia romana nella sua complessità, cercando lungo vie, palazzine e baracche l’incontro di squallore e bellezza, comicità e tristezza. Sacro GRA non è però la mappatura di una città ai margini: è piuttosto l’insieme di una serie di incontri fatti nel corso del tempo. Grazie a una scrittura calcolata e insieme naturale, nata dalla relazione fra il regista, la troupe ridotta all’osso e i personaggi che semplicemente vivono la loro vita di fronte alla macchina da presa, il Raccordo si fa luogo sacro perché universale, terra di nessuno che rinasce a partire da uno spiazzamento (di ingorghi e corsie nel film quasi non se ne vedono) e in attesa di una rivelazione. In questo senso, come autore di un cinema del reale, Rosi sfuma la concezione stessa di documentario; e per le stesse ragioni, come riconoscimento per un cinema fondato sulla ricerca e l’osservazione che in Italia esiste da tempo, il Leone d’oro a Venezia 70 a Sacro GRA non è una sorpresa o una rivoluzione, ma il culmine di un movimento che conta altri registi (Di Costanzo, Oliviero, Marcello, per restare ai più noti) e che ora ha il solo compito di continuare a realizzare il vero cinema italiano di cui abbiamo bisogno.
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