Regia di Gianfranco Rosi vedi scheda film
Vincitore a sorpresa della 70 mostra internazionale del cinema di Venezia, il film di Gianfranco Rosi riporta il Leone d’Oro in Italia, quindici anni dopo il film di Gianni Amelio suscitando più perplessità che attestati di merito.
Sacro GRA è un documentario sulle vite , fantasmatiche, che gravitano attorno alla più grande autostrada urbana d’Italia, come recita in cartello iniziale. Il Grande Raccordo Anulare, che rinchiude la città di Roma in un grande anello come quello di Saturno (ancora un cartello iniziale) e sopporta pazientemente il pesante traffico della capitale, è ritratto come un mondo a parte. Gli abitanti della periferia di Saturno sono ritratti nella loro quotidianità marginale, precaria, ossessiva ma in qualche modo unica.
Le corsie dell’anello, irrorate di rosso e bianco, a seconda della direzione della marcia, è un non luogo che sembra disabitato , una parentesi sospesa in un tempo compresso nel microcosmo automobilistico privato, parcellizzato in migliaia di omologhi microcosmi. Un iperspazio lento, tra un punto d’arrivo e uno di partenza. Esseri umani affiancati in una stessa percezione del tempo che si dilata e pulsa, si muove a scatti, cancella tutto quello che scorre accanto e attende lo svincolo giusto, nel caos calmo per ritornare cosciente della vita che respira intorno. Rosi rimane sul raccordo, o nelle immediate vicinanze e descrive , ritrae sarebbe più giusto, la vita di chi vede scorrere la vita altrui. Anfratti sconosciuti di un pianeta alieno, sorprendente e a volte triste e commovente. Sono più che altro storie di solitudine, dove i protagonisti mettono in scena la loro vita, interpretando se stessi in una paziente ricerca da parte di Rosi, della testimonianza di una privata antropologia urbana.
Sempre di più il linguaggio del documentario si avvicina a quello della finzione proponendo come in questo caso , storie reali che sorreggono da sole il senso del loro esistere, e storie di finzione che si aggrappano a contesti reali per sviluppare il loro messaggio. Ritratti che scorrono sullo schermo, ognuna con le proprie peculiarità, la propria esclusiva testimonianza di umanità. Così l’immaginario reale si trasforma in un contesto esotico nello studioso dei parassiti delle palme che studia i rumori prodotti dagli animaletti e chissà perché e su quale incarico si adopera per distruggerli. Come il pescatore di anguille che sembra scivolare sulla sua barchetta su un placido fiume sudamericano circondato da una fitta boscaglia, piuttosto che su un fiume costeggiante il raccordo anulare.
Storie che sembrano richiamare i personaggi contemporanei di Ken Loach, nell’operatore della croce rossa che scorre in ambulanza a soccorrere gli incidentati e poi come un supereroe ammantato di solitudine ritorna a casa e si toglie la tuta accudendo la madre anziana.
Il nobile massone decaduto che affitta la villa per i fotoromanzi, i viados stanziali nelle aree di emergenza del raccordo e i residenti di un palazzone ripresi a camera fissa ritratti nella loro quotidianità, ricordano i siparietti a camera fissa di Roy Andersson, autore di Canti dal secondo piano (2000) e You The living (2007) . In questo caso la differenza tra documentario e fiction si fa labile, ambigua. Soprattutto nel primo film di Andersson venivano ripresi personaggi in situazioni e dialoghi surreali durante uno spaventoso ingorgo che bloccava Stoccolma. Quel film vinse il Gran Premio della Giuria a Cannes 2000.
Anch’esso era testimone di un’umanità bizzarra e un po’ allo sbando. Se il grado di libertà che ci si può concedere strutturando un personaggio di finzione è limitato dall’esigenza della verosimiglianza, i personaggi della verità descritta da Rosi godono dell’illimitata libertà di espressione e stravolgimento bizzarro delle proprie vite con l’unico confine delle possibilità personali, intellettuali ed economiche. Alla fine i due punti coincidono e si sovrappongono.
Quello di Rosi è cinema? Può essere considerato tale e come tale vincere uno dei premi più importanti al mondo in ambito cinematografico? Credo di si. Il docu-film è buono, girato con un grande gusto per l’inquadratura e la fotografia e in ogni caso le persone ritratte essendo consapevoli della presenza della telecamera davanti alla quale espongono il loro mondo privato , dovendo interpretare se stessi come in una sorta di post-realismo, diventano personaggi. Gli interpreti delle loro stesse vite. Rosi non giudica e non si prende gioco di loro. Mostra senza dimostrare nulla, rende visibile un’umanità invisibile , la rende interessante con l’uso del linguaggio cinematografico, la espone come specchio al pubblico perché il sospetto che insinua è che ognuno , ritratto nella propria quotidianità potrebbe essere protagonista di un film così. Ma nulla più. Nulla di immortale.
Il punto quindi non è se un documentario – anche se strutturato come un lavoro di finzione - possa vincere o meno un festival importante come quello di Venezia o meno. Il nocciolo è se QUESTO film abbia le qualità per vincere un festival. Il dubbio che ci fosse qualcosa di ancora più forte e importante è legittimo perché non tutte le storie riprese funzionano a dovere. A lampi surreali – la pista per le macchinine radiocomandare ; il gregge di pecore che invade l’inquadratura della ripresa del raccordo - e intuizioni visive interessanti , seguono momenti didascalici e un pochino meccanici – qualche raccordo non riuscito, momenti che sembrano studiati a tavolino che stridono con il tenore del film . Inezie, difettucci che in un festival importante come quello di Venezia dovrebbero fare la differenza. Ma questo è compito della giuria.
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