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La vita è facile ad occhi chiusi

Regia di David Trueba vedi scheda film

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La recensione su La vita è facile ad occhi chiusi

di scapigliato
8 stelle

L’ispirazione, si sa, è sempre lì: nel deserto. Il western è la risposta. Il road movie, un western evoluto. La corsa ad Ovest, la fuga ribelle da un Nord e da un Est pseudocivilizzati, borghesi, urbanizzati, pieni, fitti, omologati, confortevoli per attraversare infine una terra selvaggia e indomita, paesaggisticamente desertica, con riferimenti ambientali minimi e svariate simbologie.

La civiltà occidentale fonda la quasi totalità della sua cultura e dei suoi segni sul viaggio verso Ovest, o verso Sud, o verso gli inferi o un ritorno o un andare senza meta, ma pur sempre di viaggio si tratta; di uno spostamento, di un moto a luogo che è anche un moto da luogo e per luogo: andata e ritorno, insieme a transito e arrivo, sono i moduli base di un viaggio e della sua idea, sono i termini cardini di uno schema, di un iter, di un be in progress che va dal fisico al filosofico, dall’immanente al trascendente. Il viaggio è alla base di ogni cultura ed è tema o topos di numerose narrazioni.

Narrazioni come quella di una fuga dal padre manesco e ancora profondamente legato alla tradizione franchista; fuga da un istituto religioso per ragazze madri; fuga dalla noia e dalla tristezza della routine a caccia del mito di John Lennon. Teatro di questa fuga a tre personaggi è l’unico deserto europeo, quello di Tabernas, in Almería, la provincia meno conosciuta e più “terrica” dell’Andalusia, il già teatro a cielo aperto di Sergio Leone, Corbucci e tanti altri.

David Trueba, fratello di Fernando (Belle Époque, 1992; La niña de tus ojos, 1999), già sceneggiatore (per il fratello con La niña e Two Much, 1995; per Álex de la Iglesia con Perdita Durango, 1997) e scrittore (Quattro amici, Feltrinelli, 1999) con un certo carisma, strappa consensi fin dall’esordio registico ed è oggi tra i nomi più interessanti del panorama iberico. Qui, in veste di sceneggiatore e regista, si ispira alla storia di Juan Carrión Gañán, professore di inglese che nel 1966 prende e va in Almería per incontrare il suo idolo, John Lennon, e approfitta di un placido road movie per tratteggiare con tocco delicato e puro tre vite in cerca di se stesse.

Il film sembra non decollare mai, ammaliato in un’inazione bucolica fatta di mare, sole, terra arsa, pesce, colori pastello. Una culla in cui ci si abbandona volentieri rimandando tutto a domani. La cortijada blanca fronte al mare, dove i protagonisti fissano il loro quartier generale nell’attesa di prendere la decisione di una vita, è un locus amoenus in cui il tempo si ferma ferito dal sole, in cui si cresce e ci si innamora dal giorno alla notte e tanto rapidamente si torna sui propri passi, per poi fermarsi di nuovo e poi ripartire.

Sembra non succedere nulla in Vivir es fácil con los ojos cerrados, titolo che riprende in spagnolo i primi versi di Strawberry Fields; sembra che sceneggiatura e regia non sappiano dove andare, cosa raccontare; e circolarmente tornano sempre lì, alle fughe da fermi dell’epoca moderna.

Il film, forse per questo suo dolce rollio pieno di simboli, anche politici, ci appare più come una fiaba che come un romanzo. Il regista sembra arrendersi alle peregrinazioni e puntare tutto sulle rivelazioni, senza dimenticare il forte contributo tematico e simbolico del viaggio e dell’on the road e ci confessa che Franco non è ancora del tutto morto e che un’idea di libertà, pur bella e urgente che sia, è più palpabile nel dolce palesarsi delle cose più piccole piuttosto che nei grandi proclami della Storia. Trueba sembra così non aver dimenticato la grande lezione unamoniana dell’intrahistoria.

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