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Class Enemy - Nemico di classe

Regia di Rok Bicek vedi scheda film

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La recensione su Class Enemy - Nemico di classe

di Peppe Comune
7 stelle

Il professore di tedesco Robert Zupan (Igor Samobor) arriva in una classe liceale di Lubiana per sostituire una collega incinta. Ha un carattere altero ed una personalità poco incline a simpitazzare Zupan, che sembra solo interessato a compiere con estrema serietà il suo dovere di insegnante. Questo, non solo gli impedisce di instaurare rapporti amicali con i suoi collleghi e la preside (Natasa Barbara Gracner), ma lo rende subito inviso all'intera classe, abituati a comportamenti più complici con la precedente professoressa. Quando Sabina (Dasa Cupevski), una studentessa, si toglie la vita per dei motivi inspiegabili, l'iniziale antipatia degli studenti verso Zupan si trasforma, prima in rabbia esibita contro quello che ritengono essere il principale responsabile dell'accaduto, e poi in contestazione aperta contro l'intero sistema scolastico.

 

 

scena

Class Enemy - Nemico di classe (2013): scena

 

 

Come spesso capita con i film di ambientazione scolastica, la classe, il luogo del "multiculturalismo" etnico in cui si registra la presenza di ragazzi provenienti da diverse estrazioni sociali ed in cui avvengono quegli attriti generazionali tra alunni e corpo docenti, viene eletto a spazio emblematico dove potervi riflettere le pulsioni sociali che serpeggiano più in generale lungo tutto il paese. "Class Enemy" del registra sloveno Rok Bicek (qui al suo primo lungometraggio) non sfugge di certo a questa regola, ed è lo stesso autore a confermarlo quando afferma di aver"concepito la scuola del film a immagine del mio paese". Il fatto poi che la Slovenia sia ai primi posti per numero di suicidi è un dato che conformerebbe ancora di più la tendenza a far aderire il più possibile il microcosmo scolastico con i caratteri di una nazione che in esso si intendono emblematicamente proiettare. Perchè è apppunto il suicidio di una ragazza a rappresentare l'elemento sufficiente per scatenare uno scontro generazionale tra professori e alunni che fa perno sulle difficoltà vicendevoli di comunicare e capirsi. Da una parte c’è l’istituzione scuola, che sembra preoccuparsi più di adempiere a quei parametri numerici che servono per conservare il “prestigio” dell’istituto che ad inserire i suoi allievi nella società dei grandi, certamente incline ad andare incontro, fino al limite consentito, alle esigenze dei ragazzi, ma più perchè ci si allinea pedissequamente a regole date che perchè se ne conoscono le effettive ispirazioni. Dall’altra parte ci sono gli studenti, resi insicuri dai propri squilibri esistenziali e dalla percepita impermeabilità del mondo degli adulti. La rabbia per la morte di Sabina si trasforma in aperta contestazione contro uno stato delle cose che sembra funzionare proprio per non escludere la sistematica elaborazione di un suicidio. Una contestazione disordinata in quanto alimentata dallo stato emotivo del momento e non frutto di un ragionato moto di ribellione, con l’inconsistenza tipica di chi si irrigidisce nel voler necessariamente considerare ogni cosa o bianca o nera. Sono alla ricerca di un responsabile ad ogni costo, mancando però di considerare quella quota di responsabilità che è iscritta nel dovere di ogni studente di predisporsi alla serie comprensione dei misteri del mondo. In mezzo c’è il professor Zupan, che con la sua rigidità comportamentale diventa l’oggetto catalizzatore di tutta la rabbia contenuta nella sua classe, un alieno “d’altri tempi” che si pone oltre lo sterile protezionismo con cui si è soliti rapportarsi con gli studenti e dentro un’idea di formazione culturale che impone un atteggiamento serio e rigoroso. Mostra un distacco cinico dal mondo che lo circonda, sembra non provare dolore per la morte della ragazza e indifferenza per lo stato d’animo dei suoi amici. Lui continua imperterrito a seguire il programma delle lezioni, a parlare del “Tonio Kröger” dell’amato Thomas Mann e a pretendere che durante le sue lezioni si parli esclusivamente il tedesco. Eppure finisce per essere l’arbitro vincente della partita per come smaschera l’impruduttività di una contesa che non può non implodere sotto i colpi di tutti gli egoismi particolari che la compongono e l’alimentano. Non prima però di essersi dimostrato del tutto incapace di instaurare una qualsiasi forma di empatia con chi gli sta di fronte (pubblico cinematografico incluso). Il fatto è che il professor Zupan non intende produrre alcuna verità assoluta, solo incarnare la convinzione (certificata da quella “classicità letteraria” rappresentata dalla presenza invasiva di Thomas Mann) che è solo acquisendo i necessari strumenti critici che si possono adottare scelte autenticamente consapevoli le quali, giuste o sbagliate che siano, popolari o impopolari, brutte o belle, ciniche o improntate al buon senso, rimangono il modo migliore per rapportarsi responsabilmente con la complessità dello stare al mondo. L’antitodo migliore contro la degenerazione culturale in atto.

L’equidistanza del professor Zupan è la stessa adottata da Rok Bicek la cui regia, arida di spettacolarizzazione ma ricca di implicazioni intellettuali, essenziale senza risultare “scolastica”, finisce per somigliare a quei punti di vista che chiedono, per non soccombere, di essere almeno ascoltati. Dal film emerge un taglio letterario, e non solo per lo spirito di Thomas Mann che aleggia lungo tutto il film, ma anche per il quadro d’insieme che scaturisce dallo stile della narrazione, che fornisce una visione affatto convenzionale sia dei turbamenti esistenziali dei giovani alunni che della greve austerità del professore. Un quadro dove non è bene giungere a conclusioni semplicistiche su questioni serie e dove tutti possono scoprirsi potenzialmente responsabili di quella deriva sociale che arriva a produrre il suicidio di una ragazza. Buon esordio di un regista da tenere d’occhio.   

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