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Class Enemy - Nemico di classe

Regia di Rok Bicek vedi scheda film

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La recensione su Class Enemy - Nemico di classe

di (spopola) 1726792
8 stelle

Class Enemy (Razredni sovraznik) è l’interessante esordio nel lungometraggio del giovane regista sloveno Rock Bicek, un nome da tenere indubbiamente d’occhio, stando a questa sua prima, intensa fatica che prende spunto da una personale esperienza da lui vissuta nel liceo di Ljubljana che ha frequentato non molti anni fa (Bicek non è ancora trentenne, essendo nato il 7 ottobre del 1985).

Presentato a Venezia 2013, si è aggiudicato a buon diritto il Premio Fedeora Settimana Internazionale della critica come miglior film di quella sezione, e successivamente si è guadagnato anche ben 7 Slovenian Awards, oltre al Premio Cineuropa al Festival del Cinema d’Europa di Les Arcs.

 

locandina

Class Enemy (2013): locandina

 

La pellicola, forte di uno script molto intelligente e articolato, è una graffiante e intensa opera prima sulle dinamiche di gruppo in ambito scolastico che con poche variazioni narrative rispetto ai fatti vissuti in prima persona (ma in totale autonomia creativa), racconta di una rivolta che ebbe risvolti molto drammatici, “organizzata” dagli studenti di quell’istituto contro un loro docente – che nella realtà era quello di matematica – accusato di rappresentare un sistema oppressivo da combattere e di essere stato la causa del suicidio di una loro compagna. I ragazzi infatti misero in piedi una vera e propria campagna diffamatoria nei sui confronti utilizzando persino la radio ufficiale del liceo per scatenargli contro una specie di mediatica caccia all’uomo e si macchiarono a loro volta di indicibili e macabri atti intimidatori come quello di riempire di candele da cimitero l’intera strada prospiciente l’ingresso dell’edificio scolastico (tutte cose che si ritrovano puntualmente anche nel film, ricostruite con accurata dovizia di particolari al fine di ricreare quel clima tempestoso, necessario per incastrarci dentro e rendere credibile la materia incandescente della sua ricostruzione cinematografica di quegli avvenimenti, realizzata utilizzando una narrazione degli eventi tesa, asciutta, essenziale e controllata, che non cade mai nelle trappole del patetismo, del didascalismo, o peggio ancora del sensazionalismo, e un’ottica più generale profonda e sfaccettata, che riesce davvero a “penetrare” con assoluta efficacia la molteplicità dei problemi e dei differenti “punti di vista” che riflette, sia nell’universo chiuso di quella classe di liceo, che in quello (indotto e più ampio) della società in cui quella classe è inserita.

 

Igor Samobor

Class Enemy (2013): Igor Samobor

 

Nella versione filmica, è l’arrivo del nuovo professore di tedesco (Robert Zupan) chiamato a sostituire la più democratica professoressa titolare, in congedo per maternità, a turbare l’equilibrio di un microcosmo fino a quel momento tranquillo almeno all’apparenza, ma refrattario ad accettare i suoi nuovi metodi d’insegnamento totalmente opposti a quelli praticati dalla precedente docente.

Il sistema educativo dell’uomo, inappuntabile sotto il profilo della capacità di insegnare la materia, risulta però agli occhi di una classe abituata alla permissività in un clima di amichevole negoziazione fra allievi e professori, incontestabilmente “dittatoriale” proprio nel voler imporre il rispetto di certe regole, come quella di obbligarli ad alzarsi in piedi al suo ingresso, di pretendere che durante la sua ora di lezione si parli esclusivamente tedesco e di non ammettere interferenze esterne a influenzare l’andamento regolare del lavoro (anche quando si tratta di un lutto familiare), e questo al fine di ottenere sempre e comunque un’attenzione totale finalizzata esclusivamente allo studio.

Una coercizione insomma a loro avviso troppo rigida, fredda e punitivamente autoritaria che crea da subito una profonda frattura che lentamente diventa sempre più macroscopicamente insostenibile.

I contrasti alla fine esplodono inaspettati e improvvisi, quando la timida Sabina si suicida dopo aver subìto un rimprovero dal professore e la patina di trattenuta normalità già in evidente processo di disintegrazione, si frantuma definitivamente innescando un violento corto circuito che trasforma la classe in un ring in cui si fronteggiano errori e pregiudizi.

Zupan, bollato di simpatie naziste, diventa infatti il bersaglio di una rivolta adolescenziale che se ha origini antiche, contiene anche il contemporaneo disconoscimento non solo dell’autorità, ma anche delle inevitabili asprezze e difficoltà della vita, taciute e nascoste in prima istanza da genitori iper-protettivi, ma che nemmeno una scuola ormai “politicamente corretta” è capace di far emergere per preparare meglio quei ragazzi alle complesse problematiche del futuro. E’ a questo punto che il dolore disorientante suscitato da quella inaspettata tragedia tragedia, finisce per trasformarsi in rabbia, e la rabbia, alimentata da interrogativi esistenziali troppo difficili persino da affrontare, si traduce di conseguenza in una vera e propria caccia: caccia al colpevole, “responsabile” di tale scompiglio (e il nuovo professore è ai loro occhi la persona ideale per vestire gli abiti del nemico da combattere ed esorcizzare).

Nemico di classe insomma (ma anche nemico in classe, si potrebbe dire): un titolo perfetto che in una accezione o nell’altra, ben definisce il senso di una storia le cui risonanze si estendono e si amplificano, passando dalla dimensione claustrofobica e circoscritta di un istituto scolastico, a quella più ampia che indirettamente coinvolge l’intera nazione slovena (irrequieta, divisa e instabile quanto mai, come ben sappiamo anche noi). La straordinaria bravura (e abilità) di Bicek, è dunque quella di far diventare la sua classe una cellula in coltura di una società in cui le contrapposizioni, i conflitti, lungi dall’essere risolti, continuano a covare sotto la cenere, pronti a deflagrare di nuovo alla prima sollecitazione, e in questa prospettiva allora “quel” suicidio più che il tema principale del film, diventa il necessario pretesto, la cartina di tornasole, che fa salire a galla tutte le contraddizioni nascoste e le fa esplodere con virulenza, trasformando così l’aula in quel simbolico ring a cui accennavo prima dove ci si avventa l’uno contro l’altro sull’onda delle emozioni.

Il regista ottiene questo straordinario risultato, lavorando davvero di fino nel riuscire a far confliggere l’alto tasso di emotività che esprime la storia, con la sua messa in scena che – al contrario – è invece lineare, calibrata, calcolata al millimetro per “reprimere” ed evitare l’esacerbazione dei sentimenti, ma che invece proprio attraverso questo procedimento tutto “in sottrazione” finisce giustamente per alimentarne (ed esaltare) il fuoco sotterraneo che contiene.

 

scena

Class Enemy (2013): scena

 

Il professore è in realtà animato da una passione che gli fa semplicemente prendere molto sul serio il suo lavoro e che lascia poco spazio ai compromessi: il suo compito è quello di “educare”, e questo lo sa fare molto bene. La battaglia è dunque fra chi avverte la necessità di stimolare il pensiero e di fornire ai ragazzi gli strumenti necessari per affrontare responsabilità e dolori, e chi invece al contrario concepisce la scuola come un’oasi felice, tendendo così ad occultare i problemi e a disconoscerne l’importanza “formativa”. Detto questo però devo sottolineare che il regista si guarda bene dal trasformare il professore in un martire o in un elemento tutto al positivo: la sua è una visione assolutamente imparziale che non parteggia per nessuno e nessuno condanna o assolve (nemmeno la ragazzina introversa che si è suicidata o il compagno che ha perso la madre): costruisce soltanto un percorso che trasforma i rapporti in un’escalation parossistica di dispetti e sospetti che coinvolgono davvero tutti quanti. Il che conduce inesorabilmente a una vera e propria “guerra”, silente e camuffata, come lo sono i peggiori conflitti “fotografati” sul nascere.

Fra le pieghe, emerge così in maniera del tutto evidente, anche la coscienza sporca di una nazione: gli sloveni quando non sono occupati ad ammazzarsi fra loro, si suicidano è la considerazione che fa un ragazzo asiatico che riesce con queste poche parole a smascherare definitivamente l’illusione fraudolenta di una “normalizzazione” che non è mai avvenuta. Una frase, che nella sceneggiatura del regista,diventa l’efficace mezzo utilizzato per rimandare il discorso non solo alle guerre recenti che anno insanguinato quel paese, ma anche a quel malessere sotterraneo tutto esistenziale, che ha portato la Slovenia ai primi posti delle classifiche internazionali per il tasso dei suicidi in continua ascesa.

In questo film insomma non tutto è bianco e non tutto è nero e a Bicek, come si è visto, interessa soprattutto la metafora di una classe in cui si riflette in piccolo una società ancora divisa al suo interno da fazioni opposte che risalgono ai tempi della seconda guerra mondiale e da allora non sono mai state sanate.

Bicek, esplorando i torti e le ragioni di entrambe le parti in causa (ma evitando eccessivi manicheismi che porterebbero a dividere i buoni dai cattivi) con questo suo Class Enemy smonta molte certezze categoriche e invita invece a riflettere tanto gli adolescenti quanto gli adulti, sulle sfumature (non tutto è bianco e non tutto è nero, come si è visto), ed è proprio mettendo in scena i pro e i contro degli uni e degli altri, che il regista riesce a trasformare questa espressione figurata che a un primo, superficiale sguardo potrebbe risultare più che particolare, specifica e contingente, in un messaggio universale che riguarda tutto e tutti.

Una seria riflessione insomma che apre un dibattito molto interessante e importante, particolarmente per le nuove generazioni del futuro che se vorranno provare a sopravvivere dovranno necessariamente imparare ad affrontare un difficile dialogo con l’altro (inteso come il “diverso”, il “nemico”) lasciando da parte l’intolleranza assoluta di cui in gran parte si sono invece nutrite fino ad ora.

 

scena

Class Enemy (2013): scena

 

Nell’impresa (affascinante e improba), il regista è stato aiutato da un attore carismatico davvero straordinario come Igor Samobon (una vera star nel suo paese) e da un gruppo di ragazzi “non professionisti” altrettanto efficaci, scelti proprio tenendo conto della loro adesione caratteriale ai personaggi che sono stati chiamati a interpretare, un connubio in apparenza rischioso ma particolarmente indovinato e molto convincente nel risultato pratico proprio sul piano del realismo (anche identificativo)..

Class Enemy è dunque un ottimo film sul dubbio e sulla pericolosità dei giudizi che a mio avviso presenta qualche punto di interessante contatto con Entre les murs (La classe) di Laurent Cantet, ma che rimanda anche, sia pure in forma più indiretta e traslata, al Mungiu di 4 mesi, 3 settimane, due giorni:. La sua capacità di riflettere sul passato e il presente evitando però inutili quanto superflue spiegazioni mi fa avvertire però anche l’eco (sia pure alla lontana) persino di Haneke (non tutto, ovviamente, ma certamente quello di Niente da nascondere - Caché in originale).

 

Igor Samobor

Class Enemy (2013): Igor Samobor

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