Regia di Ben Rivers, Ben Russell vedi scheda film
Cinema: Luce nell'Oscurità
"Sì è così, il triangolo forse allude un po’ di meno a questa questione del tempo, simboleggia più l’intera struttura del film che noi abbiamo pensato come suddivisa in tre parti equipollenti, come in un triangolo equilatero. Sono tre parti eguali, tra le quali non c’è gerarchia, nessuna è migliore o più riuscita, hanno tutte le stesse proporzioni, gli stessi intenti."
- Ben Rivers -
A Spell to Ward Off the Darkness è un film inconsueto, anormale; una svuotante operazione ontologica impressa su pellicola; un'opera imprendibile e misteriosa: rappresenta l'incontro iridescente tra il Cinema magico e quello antropologico. L'opera di Rivers e Russell tende a stregare lo sguardo, a destrutturarlo per poi ricomporlo attraverso cangianti e impercettibili incantesimi visuali che, in maniera inspiegabilmente archetipale, comunicano con l'interiorità spettatoriale: una sorta di subliminale magia cinematografica. Già l'incipit prepara il pubblico ad una visione più larga, sgombra, incorrotta ed estesa a 360 gradi, che quindi vada oltre l'orizzonte, contro ogni costrizione interpretativa e visiva. Sì, perché A Spell to Ward Off the Darkness è al di là del recinto narrativo, al di fuori dei paradigmatici bordi cinematografici: proprio per questo, risulta una pellicola sconfinata e soprattutto sconfinante, che abbandona e supera qualsivoglia territorio relativo all'aspetto raziocinante e sistematico, per approdare in spazi invisibili e sensoriali che concernono una dimensione significante, adiacente ad un senso ancora inviolato, non oggettivizzato, che è cosmico e scivoloso, in continua espansione, e che riguarda la libertà umana e filmica; si potrebbe definire un'esperienza trascendentale in una dimensione completamente reale, umana. La bellezza primigenia che si respira in questa pellicola sta soprattutto negli occhi di chi guarda: il pubblico; una bambina bionda con il cappuccio, più o meno all'ottavo minuto del film, sembra quasi invitare chi osserva, a seguirla verso territori inviolatii, nuovi ed enigmatici, fino a (dis)perdere l'abituale modo di vedere, la comune "prospettiva"; tutto ciò si potrebbe definire come un necessario smarrimento del consueto linguaggio cinematografico per far sì che esso possa rigenerarsi, rinascere in maniera autentica; la bimba in maniera pressoché inavvertibile, sembra voltarsi verso chi guarda, tenta di rintracciare gli occhi, o meglio, gli eyes wide shut dello spettatore fuori dallo schermo, cercando così una complicità metacinematografica, per celebrare e (ri)formattare la potenzialità di uno sguardo che (vuole) torna(re) vergine e puro. Un discorso che trova il suo connubio epocale e risorgente con la poetica inizializzante di Post Tenebras Lux. A Spell to ward Off the Darkness è come un viaggio metafisico nella vita, che funge da specchio spirituale per lo spettatore: egli vede riflessa la meraviglia latente che sta nell'anima e che aspetta solo di essere galvanizzata, toccata, "riconosciuta" attraverso questa esperienza coadiuvante, terapeutica. La parola, a partire più o meno dal quarantesimo minuto del lungometraggio, viene scacciata e divorata dalla potenza ritualistica delle immagini, implodendo nel Cinema stesso; il dialogo diventa quindi inutile e superfluo, superato, ed ecco che l'opera e lo spettatore affrontano un'indispensabile e disinquinante involuzione cinematografica ed esistenziale. A Spell to Ward Off the Darkness è un viaggio che rimane sospeso tra la luce e l'oscurità; un Cinema nuovo che funge da ipnosi regressiva in cui il pubblico compie una sorta di viaggio iniziatico e liberatorio attraverso percorsi inconsci dal sapore atavico e primitivo. Durante la visione, bisognerebbe lasciarsi andare al caos conoscitivo della pellicola, senza cercare di sistematizzarlo, imprigionarlo, di razionalizzarlo: è un'anarchica unione di sogni ed incubi, di immagini e suoni. A Spell to Ward Off the Darkness è un film scrutante, che si scontra (e parla) con la sensibilità dello spettatore, risultando quindi una cerimoniale esperienza radiografante. Il lungometraggio racconta le vicende di un personaggio senza nome, interpretato da Robert A.A. Lowe, che percorre tre episodi della sua esistenza, non per forza sequenziali e in ordine cronologico, ma comunque "attigui" e cioè facenti parte dello stesso triangolo vitale. La pellicola della coppia inglese è uno straordinario incantesimo cinematografico necessario per scampare all'oscurità della stessa settima arte. Quindi Cinema che è magicamente catartico, che si depura e libera da se stesso. E' un'esperienza originale, che forgia la percezione spettatoriale, riportandola al suo stadio di verginità assoluta; è quasi una trance sensoriale, indispensabile per tornare all'origine della forza del mezzo cinematografico. E' un film straordinariamente indeterminante, mutevole, in evoluzione, come il protagonista che, alla fine della prima parte, sorride e guarda altrove, volgendo lo sguardo al cielo, con occhi speranzosi, simbolo di cambiamento e rinnovamento che porteranno ad un altro percorso da perseguire, giusto o sbagliato che sia: è il perpetuo cercare un impossibile equilibrio presente, uno sorta di stabilità utopistica. Infatti, appena ci si sofferma troppo e si scopre l'irrealizzabilità di una solidità esistenziale, bisogna ulteriormente estendere il proprio Io, cercare un altro tragitto, quindi è indispensabile cancellare, bruciare il passato, cambiare volto e pelle, mascherare il trascorso (probabilmente relativo a qualche reminiscenza che scaturisce dolore); ed ecco che la visione acquista la forza di un canto esorcizzante ed evocativo. Sembra quasi una tappa obbligatoria questa dimensione "spurgante", essenziale appunto per scacciare gli spettri accumulati durante il cammino vitale. In tutto ciò, però, si arriva inevitabilmente a fare i conti con la brevità del presente, del nuovo, del mutamento, ed ecco che quindi si ricomincia, in loop, perché ogni metamorfosi deve essere fondamentalmente preceduta da una morte interiore, ma ciò non vuol dire che non si debba comunque provare - come appunto fa il protagonista, in questo frangente, attraverso un'affascinante sosta canora - ad allontanare i demoni della "scorsa esistenza" attraverso l'istante, il momento, l'attimo. L'incantesimo per scongiurare l'oscurità è forse proprio la capacità di assecondare l'oscurità stessa, diventare parte integrante di essa, ammettere l'irraggiungibilità dell'armonia vitale, e continuare a vagare, abbracciando questo loop eterno, in cui l'unica realtà salvifica è l'effimerità del presente. Estendendo il concetto, invece, nel finale lo sguardo (invisibile, celato) del protagonista sembra volgere (per l'ennesima volta) verso il cielo oscuro, ed è nel medesimo buio che sprofonda la mdp al termine della pellicola: quindi è forse lo sguardo spettatoriale l'incantesimo per scongiurare l'oscurità? E' quindi il Cinema la vera e definitiva soluzione, in tutta la sua energia primordiale e potenza apotropaica. A spell to Ward Off the Darkness tra i tanti aspetti interessanti ha una strabiliante regia diversificata: la prima parte è quasi documentaristica, verbosa e flessibile, con una linearità che tende al classico - anche il montaggio risulta più frammentario -; la seconda è contemplativa, una regia "interiorizzata" ed ellittica, fissa e riflessiva; la terza parte è un (falso) unico piano sequenza [in realtà sono presenti dei tagli] in cui la mdp tallona il viso e gli sguardi degli interpreti, esita sulle espressioni spontanee degli attori, risultando catartica. A Spell to Ward Off the Darkness è un'opera immensa, insondabile e magica. Ciò che accade nel film è un ipnotico vagabondare; un grandioso esempio di Cinema nomade in cui avviene un ancestrale ritorno alla natura; una corroborante esperienza sciamanica.
"Siamo partiti proprio da questo assunto dell’eguaglianza e della completezza perché se togli un lato al triangolo lo distruggi, quindi non vogliamo che le persone pensino che una delle tre parti è più riuscita delle altre, questo non ha senso, il film ha senso solo nella sua integrità."
- Ben Russell -
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