Regia di Joaquim Pinto vedi scheda film
Questa cosa, che chiamano Joaquim, è fatta di DNA e memorie, di dieci batteri per cellula, e sente, si nomina, esprime gratitudine. Joaquim Pinto come Derek Jarman. Un uomo di cinema che pone il suo sguardo languente al servizio del mondo. Del mondo dei sani, di coloro che sono convinti di poter guardare lontano, e non si accorgono della propria cecità. Joaquim è un tecnico del suono. Ha girato più di cento film, anche accanto a registi portoghesi famosi, come Joao Cesar Monteiro o Raul Ruiz. Adesso che la sua vita sembra svanire, è giunto il momento di occuparsi delle immagini. Di consegnare al ricordo la sua visione, come interprete personificata della realtà. è lei il volto tangibile del pensiero e delle emozioni, quello che ci appare nei sogni, che si eterna nei dipinti – dalle pitture rupestri ai quadri rinascimentali – e che sa raccontare le storie. Non c’è differenza tra chi parla e chi ascolta, tra il protagonista della narrazione e i personaggi sullo sfondo, tra il primo piano e la scenografia. L’occhio vaga, dalla luce al buio, dalla concretezza all’astrazione, dal centro del discorso alle note a margine, per cogliere quel tutto fluttuante in cui sia amalgamano l’essere e il sentire, si confondono interiorità ed esteriorità, si combattono ciò che sappiamo per esperienza e ciò a cui crediamo per fede. Joaquim è malato da anni. Di epatite C, di cirrosi epatica, di AIDS. Da quando, nel 1995, ha avuto i primi sintomi, la sua ricerca artistica è diventata un percorso alla scoperta della sua fragilità. Un cammino culminante, in questo film, con uno strenuo, appassionato attaccamento allo scorrere del tempo - entità a sua volta debole e provvisoria – che manifesta qui il suo lato meno nobile, più terreno, più teneramente umano: la ripetitività dei ritmi, la scarsa resistenza al ricordo, la mancanza di una forma solida che consenta di darne una definizione. Joaquim assiste e partecipa, come può, al mediocre spettacolo degli attimi che fuggono via, attaccandosi precariamente ai significati altisonanti che ci fanno sentire stupidamente grandi, in mezzo a questo inafferrabile universo. Siamo un niente, paludato di teorie cosmologiche, sociobiologiche, psicanalitiche. Non capiamo nulla, ma pretendiamo di spiegare perfettamente il nostro ruolo nel disegno della creazione, e di giustificare il nostro predominio. In un presente imbottito fino allo stordimento di termini tecnici e formule chimiche, solo la sofferenza ha il coraggio di rimanere attaccata alla propria origine di fango, alla propria concettuale insensatezza, ancorata alla materia, avulsa dalla ragione. Professa apertamente la propria vanità, la propria crudele follia, diversamente dai rimedi ufficiali, pratiche non meno arbitrarie ed inutili, con cui si tenta di sconfiggerla. Joaquim filma la propria battaglia con la lucidità di chi, nella sfrenata poesia del delirio, e nell’ingenuo brancolare della fantasia, individua le tracce della nostra umana impotenza di fronte al mistero. L’interferone, somministrato quotidianamente per iniezione, annebbia i sensi, ed impedisce i movimenti, facendo da schermo alla volontà, da filtro alla percezione. Rende coscienti della continua fatica di esistere, cancellando gli automatismi muscolari e neurologici che frenano, sul nascere, ogni potenziale dubbio sulla natura e sulla portata delle nostre azioni. Tutto diventa difficile – e quindi istruttivo ed importante – nel preciso istante in cui smette di essere un fatto acquisito. Solo allora comincia a prendere parte, attivamente, al dibattito intorno alla Verità. Se nulla è più dato per scontato, tutto diviene ammissibile, meritevole di essere incluso nel novero delle possibilità. Gli opposti possono convivere, scoprendosi simili, ogni cosa si apre all’ascolto del proprio contrario. L’ateo incontra Dio, pur continuando a non volerlo conoscere. L’assenza invade prepotentemente il campo, andando a prendere posto accanto ai presenti: gli amici morti insieme ai nemici vivi. Gli elementi ritornano a mescolarsi, come nel caos primordiale: il fuoco, sulla terra, prende il posto dell’acqua, mentre l’aria resta a guardare. Un’autobiografia si inserisce, in questa immane turbolenza, come l’incipit incompiuto di un capitolo finale. Sul far della sera, si inizia a vederci chiaro. E a capire che non si arriverà mai a scrivere l’ultima parola, a chiudere il cerchio della logica, a dire un addio che non sia anche l’annuncio di un progetto per domani, un augurio per il futuro.
E Agora? Lembra-me ha rappresentato il Portogallo agli Academy Awards 2015.
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