Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Capolavoro? Sta proprio qui l’equivoco: considerare Scarface ciò che non è, ossia un capolavoro. I motivi che lo fanno passare per quel che non è sono riconducibili a vari fattori: la dimensione epica, il sangue, il sesso, il lusso, Al Pacino. È forse giunto il momento di ridimensionarlo. Ridimensionare un film che per almeno una o due generazioni è un film di culto (che non stenta a trovare affiliati anche tra i miei coetanei figli degli anni novanta) fa tremare i polsi. Ci provo. Perché, tra le tante cose, il film non mi ha fatto strappare i capelli. In realtà è una storia priva di qualunque significato morale – ma De Palma e il suo sceneggiatore Oliver Stone (sì, proprio lui) non avevano alcuna intenzione di imprimerlo di moralità od etica, che fila via anche con fastidio, costruendo attorno ad un personaggio spesso abominevole una parabola nera di violenza ed eccesso. Allo stesso tempo non si può sorvolare sul mestiere abilissimo di De Palma, che si serve di uno script crudo e cinico e dirige con competente destrezza, pur non raggiungendo livelli di eleganza e fluidità degni di un gangster movie come si deve.
Essendo un gangster movie anomalo, che estremizza il capolavoro (quello sì) di Howard Hawks (a cui il film è dedicato) e ne attualizza le visioni sociali agli anni ottanta (Scarface è un film profondamente anni-ottanta, vi ci si possono ritrovare pregi – pochi – e difetti – molti – in un turbinoso concentrato di sostanze), lo stile è anomalo: l’azione si muove con il passo sospeso della tragedia greca, dove volti ed espressioni son veicolate verso il coinvolgimento emotivo dello spettatore. Peccato non sia rimasto coinvolto più di tanto in questo spaccato brutale e ridondante, eccedente e delirante. Tra l’altro contaminato ed immerso in un kitsch sterminato, ben evidente nelle scenografie sfarzose degli ambienti e nel tutt’altro che minimalisti dialoghi e in svariate altre circostanze. È allo stesso tempo anticubano e antiamericano: ambiguo? Non so. Dicevo che se viene scambiato per un capolavoro è anche per responsabilità di Al Pacino.
Pacino sprinta verso la leggenda con questo rozzo e feroce Tony Montana, mix di sovrabbondanza e patetismo, crudeltà e lampi di banale umanità (non vuole uccidere bambini). Il rischio è quello di rimanervi affascinati: il suo è un fascino malato e proveniente dagli inferi. Pacino è mostruoso, un monumento a se stesso e alla sua tecnica di immedesimazione, debordante e straripante. Per molti Tony Montana è un mito. Per me no. Ma la scena finale non si può dimenticare, la confusa e convulsa sparatoria degenerativa e crudissima in cui Pacino offre veramente la sua anima in cambio di un posto nella leggenda. Film barocco, ridondante, retorico.
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