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House of the Wolf Man

Regia di Eben McGarr vedi scheda film

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La recensione su House of the Wolf Man

di scapigliato
6 stelle

Ad oggi con pellicole come The Artist (2011) e Blancanieves (2012) sembra essere di moda fare o rifare film con un linguaggio cinematografico ed un’estetica di altre epoche. Può essere solo un gioco estetico, un omaggio nostalgico oppure può diventare il dialogo con un’altra epoca, un altro tempo con cui interloquire, domandarsi e verificare sul campo a che punto siamo arrivati oggi, se le forme odierne del racconto cinematografico sanno rappresentare davvero il nostro immaginario o se le vecchie forme del racconto per immagini non siano poi così lontane dall’evocazione contemporanea. L’operazione del coraggioso Eben McGarr non va tanto in questa direzione essendo chiaramente un omaggio ai bellissimi film horror della Universal che si facevano negli anni ’30 e che hanno influenzato l’iconografia orrorifica fino ad oggi, con le dovute evoluzioni e alternative, oltre che aver impostato magari anche solo a livello di tipizzazione i temi e i personaggi di un certo tipo di horror. In House of the Wolf Man, che già dal titolo rievoca il filone delle case da brivido e dalle mostruose famiglie allargate che è poi stato il carattere degenerativo del genere fino alla sua parodizzazione, McGarr gioca di messa in scena, luci e set-decoration. Abbiamo il modellino di un castello arroccato su un monte calvo, interni che sembrano rubati a Frankenstein (1931) con quegli scaloni di pietra senza corrimano che seguono la curvatura della torre, il bianco e nero ben riuscito e i pochi primi piani che omaggiano appunto il valore estetico ed immortale delle maschere orrorifiche per eccellenza come Dracula, Frankenstein e ovviamente l’Uomo Lupo. Ma il pregio del film si ferma qui. Opera semi-professionale di alta qualità tecnica cade sulla narrazione, lenta e verbosa, che coinvolge attori non del tutto a loro agio con il mezzo cinematografico, anche se attori professionisti. Se la cavano Dustin Fitzsimons, visto in The Social Network, (2010), e Cheryl Rodes, sexy Audrey Horne look-a-like – interpretata da Sherylin Fenn in Twin Peaks (1990-1991). Mentre il restante cast è vittima di un macchiettismo voluto o involuto, ma comunque fuori luogo. Resta sublime, invece, Ron Chaney, figlio di Lon Chaney Jr., il celebre Talbot degli horror Universal. La sua faccia è nata per essere incastonata in un’inquadratura del terrore. Posato, minimalista, freddo quanto basta, Ron Chaney stupisce come presenza iconica senza pari, e ci si chiede perché non lavori regolarmente nel cinema visto che all’alba dei sessant’anni ha girato solo due film e un cortometraggio. Per il resto il film non apporta nulla di nuovo al genere e alla riflessione sulla licantropia. La troppa verbosità non serve a niente, vuole solo tirare in lungo per giustificare il progetto il cui climax non è solo la trasformazione di Ron Chaney in lupo mannaro – tra l’altro bella trasformazione a montaggio con make-up vecchia scuola – ma anche la lotta tra lui e la creatura di Frankenstein che se le danno di santa ragione sotto gli occhi nobili di Dracula, interpretato da un azzeccato Michael R. Thomas, al secolo make-up artist, ma conosciuto come attore anche per la sua partecipazione a film di serie Z con protagonista un certo Doctor Erotico. Il film è a lui dedicato.

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