Regia di Tobe Hooper vedi scheda film
Una sceneggiatura indifendibile sta dietro all'ultimo film, diretto con classe, di Tobe Hooper. Djinn è il classico esempio di regia sprecata, a causa di un soggetto fallimentare.
Emirati Arabi, grattacielo di Al Hamra. Al sesto piano ha preso residenza la giovane coppia composta da Salama (Razane Jammal) e Khalid (Khalid Laith). I due sono in trasferta dagli Stati Uniti, dietro suggerimento di una psicologa che ha consigliato a Salama, depressa a causa della perdita di un bambino morto appena nato, di tornare -per trovare supporto- in prossimità dei familiari. Il palazzo è però al centro di una leggenda macabra: un Djinn malvagio, con sembianze di donna e conosciuto come Omiduris, assilla gli ospiti alla ricerca di una prole perduta.
Con un budget stimato attorno ai cinque milioni di dollari, Tobe Hooper torna -dopo anni- dietro una macchina da presa. E, purtroppo, ci torna per l'ultima volta. Dopo un esordio che lo ha cansacrato nell'Olimpo dei Masters of horror, la carriera di Hooper si è (mal) sviluppata tra risultati alti (pochi) e bassi (tanti). Rimane ben poco, di significativo, nella sua lunga (ma discontinua) carriera cinematografica. E quel poco lo si può rintracciare negli esordi (Quel motel vicino alla palude, Il tunnel dell'orrore). Da lì in poi, ogni progetto una mezza (per non dire intera) delusione. Vuoi per contesti produttivi caotici, vuoi per soggetti fallimentari, fatto sta che il buon Hooper non è più stato in grado di licenziare un bel film. Tra le ultime cose passabili, si può giusto ricordare il modesto Toolbox murders. Anche dall'esperienza televisiva dei Masters of horror sono usciti due mediometraggi (La danza dei morti e Discordia) che la bontà suggerisce di non ricordare per esito raggiunto. Il paradosso, nel caso di questa produzione nata e girata negli Emirati Arabi, è che qui il talento del regista si fa notare, al punto che -tecnicamente- Djinn figura tra i suoi migliori lavori da tempi ormai troppo lontani. Ma il film, ad onor del vero, è a dir poco brutto. Quasi inguardabile. E non è un controsenso.
La responsabilità è da individuare non nel regista -che come già detto esegue un lavoro eccellente- ma nella superficialità di una sceneggiatura che indispone sin dall'inizio. David Tully (per inciso: ingaggiato anche nel progetto crowdfunding destinato alla regia di Dario Argento, poi sospeso, The sandman) non azzecca una sequenza che una, in un contesto generale che deve aver reso pressoché ingestibile girare il film. Le raffinate riprese di Hooper fanno a pugni con scene involontariamente risibili (l'incidente in macchina, i dialoghi, le scene in CGI con manifestazioni -a macchia d'olio- del Djinn). La credibilità (e peggio la sospensione dell'incredulità) sparisce dopo il forzato intermezzo con il turista americano, al quale viene raccontata la storia di Al Hamra. Palazzo che, si capisce, essere in realtà un lussuoso hotel, spacciato per condominio. Cercare un nesso logico o anche illogico in Djinn diventa impresa ardua. Già il trasferimento della coppia (con i due sposi ben collocati professionalmente a New York) sa tanto di improvvisata e insensata scelta narrativa. Ma a proseguire Tully peggiora, via via in in maniera esponenziale, sino ad arrivare in chiusura senza che si sia motivato (per non dire chiarito) il criterio evolutivo di un titolo che davvero appare come un non-sense assoluto. Il film non fa paura, scimmiotta malamente il J-horror facendo degli jumpscares (causati da botti sonori) il suo unico obiettivo. Hooper ci ha lasciati il 26 agosto 2017 all'età di 74 anni e questo ultimo lavoro (per quanto da lui diligentemente risolto) non rappresenta nemmeno lontanamente il periodo migliore. E forse, neppure il peggiore.
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