Regia di Lone Scherfig vedi scheda film
Probabilmente se fosse stato un film egiziano o taiwanese con attori sconosciuti e un regista festivaliero la critica lo avrebbe osannato e pluripremiato. Invece succede l’opposto. In mezzo mondo non viene accolto bene e viene tacciato qua e là di insopportabilità e mancanza di ironia quando invece il film non solo è ben interpretato da tutto il giovane cast, ma è anche diretto con una regia personale, narrativa, ma personale, in cui predomina la posa, la composizione della scena,la sua estetica volta a richiamare la bellezza dei protagonisti.
Il testo originale di partenza, la pièce teatrale scritta da Laura Wade nel 2010, non so se fosse ironico o cos’altro, ma sicuramente non lo è il film. Lone Scherfig decide di puntare sul dramma di classe, non concede spazio all’ironia e alla satira, fortunatamente. Piuttosto intervalla la drammaticità del delirio onnipotente del Riot Clut – parodia del Bullington Club di uguale nefasta fama che esiste tutt’ora a Oxford e da cui è uscito pure il primo ministro Cameron – con alcune zingarate british e un umore che almeno nella prima parte del film aiuta a stemperare l’arroganza che trasuda dai personaggi.
La pellicola ha il suo punto di forza nel testo. Si vede che alla base c’è un lavoro teatrale e non è assolutamente noioso ascoltare gli sproloqui nicciani dei rampolli dell’upper-class inglese. Anzi, proprio il loro essere irritante è alla base del successo del film. L’accumularsi ipertrofico di canagliate, bassezze di ogni genere, cattiverie gratuite, arroganze varie fa di POSH un film horror. È inquietante pensare che certi ragazzi si comportino così, con disprezzo della dignità altrui e con la sicurezza che il denaro compri qualsiasi cosa. Che appartengano alla élite più prestigiosa o alla prole del mondo operaio poco importa: il delirio di onnipotenza è ugualmente pericoloso e inquietante. La perturbazione del migliore in campo, Sam Calflin, è la stessa di un Jack Torrance o di un Hannibal Lecter e non importa se il mestiere che accompagna la carriera degli attori più blasonati può aver dato alle loro performance una qualità maggiore. Il giovane attore di Ipswich ingegna pose, tic, movimenti scenici e nell’originale sicuramente anche modulazioni vocali tali da creare un villain tutto tondo, con le sue ambiguità, con la sua inquietante umanità e quella morbosa attrazione per la distruzione che lo rende luciferino quanto spiazzantemente angelico.
Non c’è moralismo, non c’è nessun messaggio morale. Max Irons che cavalca verso la stessa bravura de padre interpreta il protagonista in cui lo spettatore tende a riconoscersi, dubbioso e confuso quanto basta sia per cedere alle sirene della bella gioventù iperprotetta dallo status sociale ed economico della famiglia sia per opporsi con durezza e fierezza a tutta quella merda. Sì, MERDA. Perché quando un essere umano, di qualunque età, di qualunque sesso, religione o classe sociale si permette di decidere della vita e della dignità di un'altra persona, soprattutto con arroganza, protervia e cattiveria inaudita, quella è merda. Si dice merda. E non c’è da vergognarsi ad usare questo bellissimo termine che la Treccani spiega come “sterco, escremento umano o animale; persona o cosa spregevole, di nessun conto o valore”, aggiungendo derivati esaurienti come merdaio, merdoso, smerdare e merdaiolo. Per non dire dei sinonimi di questo “residuo degli alimenti digeriti che viene espulso”: cacca, deiezioni, escrementi, feci, sterco, popò, pessimo, spregevole, porcheria, schifezza, schifo, coglione, cretino, idiota, stronzo, merdaccia, fango, guai, melma. Ecco, quei ragazzi, la loro classe sociale, le loro famiglie, i loro status symbol, la loro politica tory è “residuo degli alimenti digeriti che viene espulso”. Il personaggio di Max Irons chiude il cerchio della girandola di ottimi attori inglesi – la posh-generation? – contemplando con ambiguità tutt quel mondo dorato e merdaiolo che lo circando, facendo una scelta di campo né moralistica né accomodante, solo etica.
Il film, o il testo teatrale, non si ferma alla merdaia dell’upper-class, ma affonda il dito anche nella piaga dell’invidia proletaria o borghese che sogna una vita di sfarzi, di lussi e cede al richiamo del guadagno facile per avere poi il sussulto dignitoso di chi ancora sa opporsi. I discorsi espressi da Sam Claflin, come in misura minore anche dagli altri vari membri del club, sono affascinanti e allo stesso tempo irritanti e inquietanti. Affascinanti perché l’arte oratoria e la retorica di concetti, parole e contestualizzazioni rendono il suo pesonaggio incisivo e funzionale al ruolo antagonico, se vogliamo diabolico, del suo carattere; irritanti perché la sua bravura e dirompente franchezza ti arrivano come pugni in faccia ai quali vorresti reagire di tono. Il suo personaggio e tutte le nefandezze di cui è stato capace accumulano nello spettatore tanta di quella rabbia che l’obiettivo finale del film è pienamente riuscito: provare disgusto per certi esseri umani non istintivamente o di pancia, bensì con raziocinio e dialettica.
Intelligente, ben diretto e ben interpretato, con alla base un solido testo teatrale che riecheggia nei dialoghi del film, Posh è il tipico misunderstood-movie, bocciato di qua e cestinato di là, che invece ha la stessa bellezza formale di Match Point (2005) e la combattività etica e sociale di V for Vendetta (2006).
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