Regia di Andrea Segre vedi scheda film
Secondo lungometraggio, molto atteso, di Andrea Segre, dopo Io sono Li, forse non all’altezza di quello, ma dignitoso film, con molte belle pagine, in cui l’ottima fotografia è funzionale all’indagine sugli effetti devastanti del dolore nel nostro cuore, ciò che davvero ci apparenta ai nostri simili, nonostante le presunte diversità.
Ci troviamo a Pergine – probabilmente in una piccola frazione – paesetto della Valsugana, dove si sono insediati alcuni africani in attesa di ottenere asilo politico.
Mentre la burocrazia fa il suo corso, i nuovi arrivati sono stati ben accolti e lavorano, rendendosi utili alla piccola comunità locale, fatta soprattutto di persone anziane, che finalmente trovano aiuto a tagliare i tronchi degli alberi, ad accatastarli, a raccogliere il miele, a preparare le difese contro gli orsi: in breve a mantener viva la montagna.
I pochi giovani locali sono parolai e velleitari: favoleggiano di affari immobiliari col Madagascar, ma in realtà fanno molte chiacchiere e poco realizzano; per di più qualcuno di loro – come Fabio (G. Battiston) – incoraggia il piccolo Michele (Matteo Marchel), che già ne ha poca voglia, a non andare a scuola.
Michele è un bambino difficile: non ha più il papà, vittima di un incidente di montagna e non ama la madre (Anita Caprioli), alla quale attribuisce la colpa di averlo lasciato morire.
Il piccolo ama il vecchio nonno Pietro (Peter Mitterrutzen) apicultore e si sta affezionando al giovane Dani (Jean Cristophe Folly), africano del Togo che sa fare molte cose che lo incuriosiscono e lo coinvolgono, come il lavoro delle api.
La storia di Dani è simile a quella di molti immigrati: ha attraversato la Libia in piena guerra e ora vive con la figlioletta Fatou, che nascendo aveva provocato la morte di Layla, la madre.
Per questa ragione, Dani non sente affetto per la figlia: la lascia strillare e piangere abbandonandola alle cure affettuose delle vicine, ma non intende portarla con sé quando lascerà la montagna, con tutti i documenti in ordine che gli serviranno per raggiungere l’amico già arrivato a destinazione che dovrebbe diventare anche la sua: Parigi.
Il film è costruito intorno a questo piccolo nucleo di problemi, al centro del quale è l’interrogarsi sul dolore senza perché e senza colpa. Dani non riesce a elaborare il lutto per la morte di Layla e non riesce a perdonare Fatou; Michele non si dà pace per la morte del padre e non riesce a perdonare la madre.
In realtà non ci sarebbe nulla da perdonare, ma non è facile farsi una ragione della perdita improvvisa delle persone amate: non lo è neppure per gli adulti, figuriamoci se lo è per i bambini!
È più facile attribuire a qualche misteriosa colpa altrui il nostro destino di sofferenza che ci rende tutti simili, bianchi, neri, grandi e piccoli, figli dell’Africa o delle nevi di Pergine.
Il film si spinge talvolta pericolosamente lungo il piano inclinato della deriva sentimentale e patetica, anche se fortunatamente riesce a contenere la rovinosa discesa, grazie all’asciutto racconto del comportamento di Michele, crudele e cattivo quanto basta, di cui solo alla fine si comprendono le ragioni, e grazie anche alla bella caratterizzazione di alcuni personaggi. La fotografia sottolinea l’estraneità impassibile – quasi leopardiana – della natura bella e terribile di fronte ai drammi dell’uomo; bravi gli attori.
Gran Prix del Festival di Annecy 2013
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