Regia di Tim Burton vedi scheda film
Da una strana storia vera. Che parla di arte e di menzogne, di furto di proprietà intellettuale ma anche di sottomissione delle donne e, conseguentemente, di autodeterminazione. Ovviamente al femminile.
Siamo nella San Francisco a cavallo tra gli anni '50 e '60 ed è il periodo di Andy Wharol, dell'esplosione del POP e della cultura popolare, delle seriografie e quindi della produzione di massa e del mercato (quasi) globale.
E' anche il periodo di Margaret Keane (la ottima Amy Adams) pittrice monotematica e donna fragile, e di suo marito Walter (un gigionesco Christoph Waltz), aspirante artista e, soprattutto, manipolatore narcisista e bugiardo compulsivo, ma anche abilissimo promotore di se stesso e delle opere della stessa moglie che riesce a vendere spacciandole per proprie e a creare, su questa truffa, un'industria millionaria.
Margaret, la protagonista della storia, è un surrogato di luoghi comuni e stupidità, perennemente sottomessa al marito in modo anche irrealistico ma probabilmente, nel film, anche metafora della condizione stessa della donna in quell'epoca (esplicito in tal senso il dialogo in chiesa tra Meg e il prete) e, al contempo, anticipatore (la fuga da entranbi I suoi mariti e la denuncia in tribunale del secondo!) del movimento femminista e dell'emancipazione della donna che da lì a pochi anni avrebbe cambiato molte cose.
La stessa interpretazione della Adams, minimalista e contrallata, rispetto a quella gigionesca e istrionica, spesso esagerata di Christoph Waltz sembra quasi ripropporre in chiave grottesca il genere di rapporto matrimoniale tra moglie e marito di quegli anni, esacerberandone ovviamente gli aspetti e i conflitti quasi in una farsa.
Così come anche il mercato dell'arte, con l'esplosione della PopArt, viene totalmente rivoluzionato arrivando a modificarne anche il concetto stesso e trasformandolo, attraverso la riproduzione in serie, da prodotto per pochi a merce per molti e rivelando, al contempo, anche la distanza tra il gusto del pubblico e quella di una critica “colta” e autoreferenziale, troppo ancorata ad un proprio gusto elitario per comprenderne davvero l'importanza e indipendentemente dall'effettivo valore o meno del prodotto stesso che, improvvisamente, non era più determinato solo dal giudizio di pochi “eletti”.
Big Eyes non è sicuramente il miglior film di Tim Burton e, probabilmente, non ha mai avuto la preteso di esserlo ma Il problema con i suoi films è che non possono essere semplicemente presi a sé stanti ma li si deve comunque confrontare con il suo passato, e rispetto a molte opere precedenti è effettivamente un film anomalo, per quanto possa esserlo l'opera di un regista che ha da sempre riesce a spiazzare il suo pubblico.
Eppure la sua firma è comunque presente, fin dall'inizio, con la fuga di Margaret da una cittadina californiana che sembra presa di peso dal suo Edward mani di Forbice oltre al fatto che, metaforicamente, questo film potrebbe tranquillamente essere una delle storie di Big Fish, talmente assurda e irreale da essere assolutamente vera, così come numerosi sono anche gli elementi tipicamente Burtoniani come l'amore per la pop-art, un'ironia grottesca per il dramma e l'orrore per il conformismo o il tema dell'autodeterminazione, questa volta a inclinazione femminile (o femminista).
Ma sembra quasi nascondere la propria mano, come se il raccontare una storia vera, tra l'altro di una persona di cui è amico da anni, lo condizioni e lo ancori ad una realtà in cui non si trova quasi mai a proprio agio o è forse proprio l'affetto per tale persona, invece, a portarlo a cercare di nascondersi dietro al suo stesso film.
E' comunque un Burton con le mani legate, contenutissimo, che recupera e riadatta una struttura molto classica e puntando, senza eccessive distrazioni, quasi solo sugli eventi e sulla narrazione, piuttosto lineare, e su una certosina rivisitazione di quel periodo e di una San Francisco multietnica e kitch, splendidamente illustrata e raccontata.
Una confezione impeccabile, quindi, a sostegno di una storia accattivante e scorrevole su realtà e finzione, sul senso dell'arte e sul prezzo della verità ma che stranamente rivela poco contenuto ma soprattutto poca emozione.
VOTO: 6
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